Redazione
Un’antica questione, il rapporto fra scienza e arte, soprattutto se le si considera parimenti discipline della creatività e della conoscenza: è intuitivo pensare che entrambe possiedono questi requisiti. Un riepilogo storico del discorso epistemologico su arte e scienza è ciò che propone Carlo Martini, utilizzandolo per presentare, sulla scia delle proprie riflessioni, il grande interesse che suscita l’opera di Armando Pelliccioni.
Oggi possono arte e scienza coesistere e dialogare? Possono persino contaminarsi? Possono imparare l’una dall’altra? Possono, addirittura, essere considerate complementari? Cosa ha da dire di indispensabile l’artista allo scienziato? E lo scienziato all’artista? Queste sono domande che sembrano attuali. Ma a ben pensarci sono domande che sono presenti nell’interrogazione universale da quando esiste il pensiero umano, tenendo, ben inteso, debito conto del modificarsi del significato delle parole “arte” e soprattutto “scienza” nelle varie epoche.
Spinti a rispondere a queste domande, istintivamente molti si schiererebbero sul fronte dell’impossibilità comunicativa fra i due ambiti. Arte e scienza sono mondi considerati comunemente molto distanti, separati, che parlano lingue completamente differenti.
Nel senso comune l’artista e lo scienziato sono per lo più concepiti come figure dalle caratteristiche opposte. Lo scienziato viene generalmente visto come una persona totalmente razionale, la cui indagine è dominata da regole rigide che compongono un quadro teorico ben definito. Il ricercatore svolge il proprio lavoro sicuramente con tenacia, costanza e passione, ma in maniera sempre disciplinata, rigorosa volta ad una oggettività che crea un solco fra la sfera della sua interiorità e l’oggetto indagato. L’attività scientifica potrebbe, tutto sommato essere pensata come qualcosa di arido, che porta con sé uno sguardo disincantato e asettico del mondo, e lo scienziato come un operatore disumanizzato. Iconiche a tale proposito appaiono le parole dello storico della scienza Alexandre Koyré: “Ho detto che la scienza moderna aveva rovesciato le barriere che separavano i Cieli e la Terra, che essa unì e unificò l’Universo. Ciò è vero. Ma io ho anche detto che essa lo fece sostituendo al nostro mondo di qualità e percezioni sensibili, mondo nel quale noi viviamo, amiamo e moriamo, un altro mondo: il mondo della quantità, della geometria deificata, mondo nel quale c’è sì posto per ogni cosa, ma non ce n’è per l’uomo”.
Al polo opposto sta l’artista, percepito come l’uomo creativo per eccellenza, che fa dell’intuizione irrazionale e della sregolatezza il proprio modo di conoscere il mondo. La sua indagine\ricerca è fondata sull’amplificazione della propria sensorialità e del proprio mondo interiore, sulla soggettività ed irrazionalità del proprio agire. L’artista incarna, nel senso comune, l’ideale romantico dell’uomo che fa della spontaneità, della libera attività speculativa dello spirito, svincolata dal faticoso sforzo della scienza oggettiva, lo strumento per rapportarsi al mondo.
Queste suddivisione tra lo scienziato e l’artista è tutto sommato un cliché che probabilmente non tiene in debito conto del fatto che sia la ricerca scientifica sia la produzione artistica sono attività eminentemente umane, che nascono da una pulsione interiore profonda la quale giustifica lo sforzo indistinto di dedicare una vita intera alla propria opera. A tale proposito credo che siano particolarmente interessanti da considerare le parole di Albert Einstein: “l’impulso più potente che li spinge verso l’arte e la scienza è il desiderio di evadere dalla vita d’ogni giorno con la sua dolorosa crudezza e il suo vuoto senza speranza di sfuggire dalle catene dei desideri individuali più sensibili fuori dal loro mondo individuale, verso il mondo della contemplazione e del giudizio obiettivo”. Come ulteriore contributo a questa riflessione si può considerare l’interessante chiave di lettura che Alice Chirico (che ha già contribuito in questo sito con una riflessione sulla profonda meraviglia nell’articolo Profonda meraviglia e conoscenza) propone riguardo all’opera di Salvador Dalì: “Le teorie evoluzionistiche spiegano lo sviluppo filogenetico dell’essere umano in termini di adattamento a sfide, a problemi e a richieste dell’ambiente. La tesi che anche nell’ambito artistico le cose funzionino in modo non troppo diverso da così si è fatta strada a più livelli […] L’arte risulta un’efficace strategia regolatoria del flusso emotivo dirompente che investiva Salvator Dalì fin dalla giovane età. Oggi questo processo si potrebbe senza dubbio etichettare come “regolazione emotiva”.
Quanto appena detto, sembra non tanto far emergere la verità generale che l’uomo, in ogni sua attività, sia mosso dalla ricerca della ricompensa e dall’evitamento di stati non confortevoli, quanto piuttosto suggerisce qualcosa di molto più preciso ed interessante: che la ricerca scientifica e l’espressione artistica siano due attività che l’uomo mette in atto per rispondere alla tragica consapevolezza delle proprie insoddisfazioni e fragilità. Da entrambe lo scienziato e l’artista cercano di ottenere uno stato emotivo più soddisfacente, che permetta un’esistenza più sopportabile. Ciò che merita di essere evidenziato in tutto questo è a mio avviso il fatto che dietro a quelle che sono le attività forse più elevate dell’essere umano e che lo caratterizzano per la sua statura, ci sia tutta la fragilità dell’uomo, la sua finitezza, la sua incompiutezza ed il tentativo di conseguire l’obbiettivo mai raggiunto e mai abbandonato, di dare risposte definitive a tale frustrante dimensione esistenziale.
D’altro canto credo che questa diffusa ed istintiva posizione nasca da un equivoco piuttosto comune: quando pensiamo alla scienza facciamo riferimento a quella visione del mondo che abbiamo per lo più studiato a scuola, la visione classica. Per lo più facciamo riferimento ad un’immagine della Natura che trova la sua lontana radice nel concetto di ἀρχή (=archè), oggetto della speculazione dei filosofi greci, il “principio” eterno ed immutabile l’elemento fondamentale, il principio generatore e legge cosmica che sta a fondamento della φύσις (=physys), elaborato e riproposto a loro modo dagli artisti e dagli intellettuali del XV e XVI secolo come Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, Niccolò Cusano e Leonardo da Vinci, formalizzato da Galileo Galilei, sviluppato da Cartesio, e che trova il suo compimento nella stesura della legge di gravitazione universale di Isaac Newton ed il suo apice nel sogno del demone di Pierre Simon Laplace.
In particolare nel XVII secolo dopo la rivoluzione epistemica di Newton si credeva che il mondo fosse riconducibile ad un insieme di corpi posti in movimento in uno spazio vuoto. Tali corpi erano assimilabili a punti; ogni punto in un certo istante occupava una ben precisa posizione, descrivibile con una terna di coordinate spaziali. I corpi in movimento, soggetti alla forza di gravità valida ad ogni ordine di grandezza allora conosciuto e misurabile, descrivevano traiettorie costituite da curve geometriche tali che, date le coordinate del corpo ad un dato istante, se ne poteva derivare matematicamente ogni sua posizione a qualsiasi altro istante. Questo impianto teorico legittimò il matematico, fisico ed astronomo francese Pierre Simon marchese di Laplace, vissuto a cavallo fra ‘700 e ‘800, a concludere che: “dovremo considerare lo stato presente dell’Universo come l’effetto di uno stato antecedente e come causa dello stato che viene in seguito. Un’intelligenza (nota oggi come demone di Laplace) che conoscesse tutte le forza che agiscono in Natura in un dato istante, nonché le posizioni occupate in quell’istante da tutte le cose dell’Universo, sarebbe in grado di comprendere in un’unica formula i moti dei corpi più grandi altrettanto come dei più leggeri atomi del mondo purché il suo intelletto fosse sufficientemente capace di sottoporre ad analisi tutti i dati. Per essa nulla sarebbe incerto, il futuro come il passato sarebbe presente ai suoi occhi”. È proprio questa idea meccanicistica del mondo, deterministica, causale, descrivibile attraverso l’uso della geometria euclidea, quella a cui si fa istintivamente riferimento quando pensiamo all’Universo, alla Natura e alla scienza. Questa tappa della storia della scienza fu salutata come un trionfo e considerata un punto di arrivo del sapere, come scrive Ilya Prigogine -premio Nobel per la chimica nel 1977-: “un successo apparentemente completo del progetto di far confessare in un solo colpo la verità alla Natura, di scoprire il punto di osservazione da cui, con un solo sguardo dominatore si può contemplarla mentre si offre senza veli” (tratto da “La nuova alleanza, metamorfosi della scienza”, libro dal quale ho attinto largamente per la stesura di questo articolo). Ma perché questa visione del mondo meritò l’osservazione di Koyré scritta sopra: “mondo nel quale c’è sì posto per ogni cosa, ma non ce n’è per l’uomo”? Perché un mondo così concepito è un mondo omogeneo ad ogni sua scala ed in ogni suo aspetto. I fenomeni semplici studiati dalla scienza forniscono la chiave dell’intera Natura. La complessità e varietà davanti ai nostri occhi è solo apparente e l’enorme diversità dei fenomeni è spiegabile nei termini della verità universale intrinseca alle leggi matematiche del moto. Con una efficace espressione è stato detto: “in ogni istante tutto è assegnato”, ed il mondo è ridotto ad un automa, un enorme spaventoso campo di domino della necessità, compreso dall’uomo in ogni suo aspetto, ma dal quale l’uomo non può che rimanere fuori e per il quale mondo resta un osservatore estraneo.
Tuttavia questo era ciò che si conosceva fino alla fine del XIX secolo. Con l’inizio del secolo successivo, con l’evolversi della tecnologia e delle macchine a vapore, gli scienziati cominciarono a porre attenzione a fenomeni complessi e a studiare il comportamento dei gas. La scienza scoprì la legge matematica della propagazione del calore; diruppe come un terremoto epistemico la seconda legge della termodinamica e la chimica fisica divenne una scienza irriducibile alla dinamica classica, divenne una scienza dei processi, processi che da uno stato di massima energia iniziale tendono a quello di equilibrio.
Da allora si è scoperto che quando un sistema si avvicina all’equilibrio l’evoluzione che lo caratterizza si comporta in modo lineare e lo stato del sistema si approssima a quello stazionario, ma quando le forze della termodinamica che agiscono sul sistema raggiungono valori abbastanza elevati, tanto da superare una certa soglia di stabilità, viene raggiunto quello che è generalmente chiamato un “punto di biforcazione”. Vicino ai punti di biforcazione i sistemi presentano grandi fluttuazioni ed il sistema sembra “esistere” tra varie possibili direzioni di evoluzione. In queste regioni possono originarsi nuovi stati dinamici della materia che riflettono l’interazione del sistema con ciò che lo circonda, e piccolissime fluttuazioni del sistema possono dare inizio ad una nuova evoluzione che cambia drasticamente l’intero comportamento del sistema macroscopico. Questo aspetto della Natura straordinario, che è un’acquisizione abbastanza recente della fisica, era già stato intuito addirittura da Lucrezio quando scriveva: “a volte in tempi e luoghi incerti, una deviazione minima, il clinamen, turba la caduta eterna e universale degli atomi. Dal vortice che ne risulta nasce un mondo e la totalità delle cose naturali”. Ed in tempi più recenti il fisico James Clerk Maxwel osservando l’esplosione del fulmicotone scriveva: “Ogni esistenza da un certo punto in poi, ha i suoi punti singolari: più è elevato il livello, più essi sono. In questi punti, la cui grandezza fisica è troppo piccola perché un essere finito possa tenerne conto, si producono delle influenze che possono condurre a risultati della più grande importanza”.
Data l’acquisizione di queste nuove conoscenze è da sottolineare un punto cruciale. Come farà il sistema a scegliere tra le possibili direzioni della biforcazione? Il punto chiave è che secondo le conoscenze attuali, a questo livello siamo di fronte ad un elemento irriducibilmente casuale; non esiste equazione in grado di prevedere il cammino che il sistema seguirà, e questo non è legato alla nostra ignoranza attuale, è un fatto, un limite invalicabile che si pone alla nostra conoscenza.
Tenendo conto di tutto ciò tuttavia, la dinamica newtoniana e l’immagine del mondo che ne deriva, sono totalmente superate e sono state abbandonate? Nient’affatto. Nel campo microscopico, le leggi della meccanica quantistica hanno preso il posto di quelle della meccanica classica. Ugualmente su scala dell’Universo, la fisica relativista ha preso il posto della fisica newtoniana. Eppure essa rimane il punto di riferimento per eccellenza, è sempre valida sulla nostra scala. Non solo, a buon diritto possiamo affermare che la descrizione di traiettorie deterministiche, reversibili, statiche conseguenti alla dinamica newtoniana è rimasta il cuore della fisica. Nonostante questo si può dichiarare che la scienza dei nostri giorni ha rotto con il mito newtoniano perché ha teoricamente concluso che è impossibile ridurre la Natura alla semplicità dopo aver scoperto il suo pluralismo. Lo sguardo è semplicemente più composito e meno drastico: sappiamo che ogni sistema è caratterizzato da una successione di regioni stabili, in cui dominano le leggi deterministiche, e di regioni instabili, vicino ai punti di biforcazione, in corrispondenza delle quali la Natura può “scegliere” più di un possibile futuro. Il carattere deterministico delle equazioni cinetiche con cui si può calcolare l’insieme degli stati possibili e la loro rispettiva stabilità, è inestricabilmente connesso con le fluttuazioni casuali che “scelgono” tra i vari stati intorno ai punti di biforcazione, sappiamo che la Natura danza fra caso e necessità. Dunque la fisica riconosce che la dinamica newtoniana, che come abbiamo visto descrive una Natura sottomessa e controllabile, non corrisponde che ad un caso particolare.
Quale nuova e più completa immagine della Natura restituiscono le attuali conoscenze? L’immagine di una Natura non pienamente controllabile, non del tutto manipolabile, spontanea, indagabile ma autonoma. È la consapevolezza di questa immagine che fa esclamare a Stuart Kauffman “una concezione di Dio è che Dio è il nome da noi scelto per questa incessante creatività dell’universo naturale” e ad Ilya Prigogine “Ogni grande era della scienza ha avuto un modello della Natura. Che simbolo potrebbe andar bene per noi? Forse, l’immagine che usava Platone: la Natura come opera d’arte”.
Di conseguenza nel quadro di riferimento così ridefinito cambia anche la posizione dello scienziato. L’uomo di scienza che cerca il proprio posto nell’universo si muove oggi fra due baratri: da una parte quello non del tutto abbandonato e conseguente alla sottomissione a leggi che riducono l’inventiva e la creatività ad illusione, e che porta lo scienziato in una dimensione disumanizzante; dall’altra quello generato dalla coscienza del gioco aleatorio della Natura, che compie scelte non del tutto intellegibili e che potrebbe indurre lo scienziato alla rassegnazione davanti alla partita della conoscenza. Proprio questa nuova e complessa condizione rende la sfida scientifica una sfida splendida, che richiede al ricercatore di utilizzare tutta la propria creatività per trovare soluzioni non scontate. Quella che abbiamo provato a ricomporre fino ad ora è l’immagine della Natura a disposizione di ogni scienziato, e fra questi, di Armando Pelliccioni, ricercatore nell’ambito della fisica teorica ed artista, la cui opera è stata presentata in questo sito da Cinzia Folcarelli nell’articolo Universalità nell’arte e nella scienza.
Pelliccioni attraverso tutta la sua produzione artistica, in qualità di fisico, sembra fare propria la critica platonica all’arte. Dalle sue opere e dalla sua poetica traspare l’adesione alla condanna di Platone all’arte come μίμησις (=mimesis), imitazione, l’arte che produce ϕάντασματα (=fantasmata) immagini, rappresentazioni, tanto che cardine del messaggio artistico di Pelliccioni è la presentazione della Natura e non la sua rappresentazione.
Soprattutto dai sui lavori iniziali sulla geometria euclidea (vedi Composizione I e Rotore blu), ma anche dalle più recenti esplosioni, emerge il messaggio chiaro di proporre un’arte che contenga in sé un μέτρον (=metron) metro, una misura, una regola, una norma. Di offrire un’arte che sia il più possibile oggettiva, bandendo dalla sua espressione tutto ciò che porti un contenuto soggettivo, qualcosa appunto di non obbediente ad una misura.
Per Pelliccioni dire qualcosa attraverso un’opera d’arte significa dire qualcosa di coerente, di determinato, di definito. Pertanto scopo primario dell’artista, è aderire ad un’arte che produca, per dirla ancora con Platone άλήθεια (=a-letheia), ovvero lo stato del “non essere nascosto”, e quindi “lo svelamento”, la fattualità, la realtà. La volontà artistica e filosofica di Pelliccioni è dunque quella di mostrare la cosa per come è. È in questo senso quindi che va intesa la sua ricerca di “Universale” ispirata largamente all’opera di Piet Mondrian, che lo spinge ad affermare: “esiste una stretta connessione tra matematica e forme naturali, e scopo dell’arte è di mostrare questa verità. La potenza della verità”.
Tuttavia se la poetica di Pelliccioni si fermasse a questo potremmo obiettare il fatto che questa visione aderisca a quel volto della Natura esclusivamente legale e determinata dipinto dalla meccanica newtoniana, per la quale, come abbiamo visto non c’è spazio per l’artista, ma al massimo un residuo spazio per uno scienziato che osserva, senza poter interagire, con un meccanismo tutto volto al proprio autoperpetrarsi.
È proprio seguendo questa prospettiva che Hegel arriva a dire: “nell’epoca della wissenschaft (cioè nell’epoca della scienza) l’arte è passata”, perché non è più necessaria. È giusto sottolineare a tale proposito che nell’epoca in cui visse Hegel, ovvero a cavallo fra ‘700 e ‘800, la visione della Natura era ancora quella newtoniana. Nell’epoca in cui la scienza ha portato la Natura a svelarsi interamente, (si ricordi il demone di Laplace), il ϕιλόσοϕος (=filosofo) non è più tale, non è più amico del sapere, è diventato ormai ςοϕος (=sapiente), per cui si assiste al trapasso della filosofia in scienza. Dato tale passaggio, l’arte, il cui scopo è quello di esprimere la verità, non è più necessaria, la wissenschaft (la scienza) l’ha resa inutile, parte di un passato.
Ma Armando Pelliccioni è pienamente immerso nel sapere scientifico contemporaneo e sa che la Natura non ha solo il volto conosciuto da Hegel. Ha una visione più completa, anche se ovviamente non definitiva, sa che la Natura non si rivela tutta di un colpo, sa che essa possiede un’attività intrinseca per cui tende a sfuggire alla dominazione. In “Dialoghi sull’arte inter-geometrica 2006/2016”, il catalogo realizzato per una sua mostra nel 2016 scrive: “l’arte permette di affiancare contemporaneamente il mondo deterministico-euclideo a quello imprevedibile-caotico. In questo dialogo tra diverse geometrie nasce una nuova informazione, una società più ricca. La consapevolezza della reale imprevedibilità del mondo è l’unica certezza prevedibile”, anzi si spinge anche oltre tanto che nel suo atelier si trova scritto: “La vera ed unica regolarità delle leggi nell’universo è nel caos e non in una visione euclidea”.
Sa che nella maggior parte delle circostanze interessanti, lui come scienziato non può arrivare alla “conoscenza massima” ideale del sistema, perché sa che non può manipolare con assoluto controllo e a proprio piacimento le condizioni iniziali. Una parte essenziale della sua speculazione scientifica, filosofica e della sua produzione artistica è rappresentata dal tema delle esplosioni.
In merito scrive: “il sistema di equazioni-simboli che descrivono le esplosioni esistono e si chiamano equazioni di Navier-Stokers. Queste equazioni non significano che la Natura è prevedibile, deterministica, ma che possiamo al massimo intuire i comportamenti medi, quelli maggiormente rappresentativi. Nelle esplosioni vere, reali, sono nascoste le leggi della Natura non lineari. L’interesse per le esplosioni nasce dalla necessità di dare forma concreta e perenne all’impulso iniziale: congelare per sempre l’atto creativo di un millisecondo. Ogni opera sulle esplosioni diventa una delle infinite realizzazioni del caos”. (Dialoghi sull’arte inter-geometrica 2006/2016). Queste parole sono particolarmente esplicative: lo scienziato può solo descrivere e normare i comportamenti medi della Natura, non può prevedere ogni esito, al massimo ha la possibilità di intuire. Tornano in mente le parole di Einstein considerate all’inizio: “l’impulso più potente che spinge lo scienziato alla ricerca è il desiderio di evadere fuori dal mondo individuale, verso il mondo della completezza e del giudizio obiettivo”. Questo mondo della completezza della conoscenza, che porta alla piena oggettività, sappiamo ormai che si è rivelato un obbiettivo assai sfuggente, e Pelliccioni dimostra con le sue parole di esserne pienamente cosciente. Allora che fare? Accettare passivamente quella che sembra una sconfitta parziale dell’impresa conoscitiva? Pelliccioni con le sue opere sembra suggerirci una soluzione molto interessante, una via per dirla con Alice Chirico “adattiva”. Fa appello alla sua anima artistica e sceglie di intraprendere la via estetica.
Sceglie, da fisico esperto, di preparare tutte le condizioni per riprodurre come in un rigoroso esperimento scientifico un particolare sistema caotico, (le esplosioni di colori ne sono l’esempio più rappresentativo) e una volta studiate minuziosamente le condizioni iniziali, si pone alle biforcazioni del sistema e attraverso un intimo dialogo faccia a faccia con la Natura, forte della sua profonda conoscenza dei comportamenti della Natura stessa, fa appello alla sua libera attività speculativa, per intuire come la “Sua Interlocutrice” possa dare, attraverso il gesto artistico da lui attuato, un esito formale esteticamente soddisfacente. Le propone di manifestarsi in tutta la Sua bellezza e prolifica ricchezza. Fa del caso una straordinaria opportunità per godere a pieno della possibilità di contemplare, con profonda meraviglia, l’infinita capacità della Natura di comporre forme meravigliose, che esaltino il suo ed il nostro gusto estetico.
Celebra in tal modo in una volta le capacità poetiche della Natura e la grandezza e la nobiltà dell’Uomo capace di cogliere tale poesia, di dargli significato e così facendo di elevarsi fino a dare un significato a sé stesso. “Considerate la vostra semenza, fatti non foste a viver come bruti” direbbe Dante. Data questa chiave di lettura potremmo rispondere all’affermazione hegeliana che, oggi, nell’epoca in cui la wissenschaft (la scienza) ha incorporato in sé la lezione della complessità, e si presenta come una disciplina meno illusa di un tempo di aver compreso il Mondo nelle sue profondità, probabilmente l’arte è ancora necessaria. E che uno scienziato che sia anche artista può trovare in sé una sintesi interessante da sottoporre al dibattito culturale attuale.
Letture:
- Ilya Prigogine, Isabelle Stengers – La nuova alleanza – Metamorfosi della scienza – Einaudi 1999
- Alice Chirico – Tra genio e follia – I grandi della pittura – Vol. 8 Salvador Dalì – La Repubblica 2022
- Emanuele Severino – La filosofia dai greci al nostro tempo – BUR 1996
- Davide Fiscaletti – Affreschi quantistici – Parallelismi tra scienza e arte – Castel Negrino 2020
riferimenti utili:
- Massimo Cacciari | Fine dell’arte | festivalfilosofia 2017: https://www.youtube.com/watch?v=do5sbINO1nc
Interessantissimo articolo che apre uno scenario riflessioni sui possibili punti di convergenza e interscambio fra arte e scienza.
Al mio sguardo di musicista la questione appare alquanto familiare, essendo la musica composta di elementi oggettivi, osservabili e misurabili e di elementi soggettivi, interiori e cangianti. Il bello è che le due componenti non lottano affatto fra loro ma si integrano e si cercano in continuazione, in un divenire che trasforma l’una nell’altra e che alla fine prende le sembianze di un meraviglioso e puro gioco.
Ecco, forse è proprio questo elemento ludico che sta alla base della gioia di studiare, scoprire, inventare e che ci consente di oltrepassare i nostri limiti contingenti.
Ascoltando una recente incisione discografica delle Suites di Handel eseguite da un musicista che “gioca”moltissimo e con intelligenza con la musica, mi accorgo del senso allusivo e di sorpresa che si crea in continuazione: il cervello è “felice” di ricevere così tante sollecitazioni! In un’altra situazione, senza “disordine creativo” , senza “gioco”, questa musica sarebbe insopportabile…Certe incisioni, come certi dipinti (penso al Botticelli) non smettono mai di “intrigare”, anche quando li conosci quasi a memoria…Magia del gioco!
Grazie Anna, innanzitutto per l’interessante e stimolante commento.
L’idea di trovare armonia nello svolgimento della Natura, nello spiegamento delle leggi della Fisica nell’Arte è stata una scoperta affascinante e, soprattutto, impegnativa.
Quando affermi “…che le due componenti non lottano affatto fra loro ma si integrano e si cercano in continuazione, in un divenire che trasforma l’una nell’altra…”, riferendoti al rapporto tra elementi soggettivi e oggettivi, ho trovato, in questa affermazione, uno stretto parallelismo tra la capacità di controllare e capire la Fisica in essere e il prodotto artistico, che deve quest’ultimo sottostare a delle regole ben precise per avere un contenuto intrinseco di ‘bellezza’.
Non sempre la Fisica è ‘Bella’, come non sempre, immagino, capire gli elementi oggettivi nella musica non produce opere che ‘fanno felice il cervello’.
Mi pare interessante questo aspetto della tua riflessione: ‘felicità del cervello’ ed ‘elementi oggettivi’.
Spesso, vengono trascurate le relazioni tra questi due aspetti legati alla capacità neurologica dell’Uomo in relazione alla ‘bellezza’.
Eppure, come mi sono subito reso conto studiando le regole alla base della percezione visiva, esiste una strettissima correlazione tra funzionamento neuronale e informazione ‘buona’, piacevole.
Esiste, anche, una informazione ‘non buona’, ‘spiacevole’, ‘sgraziata’, che non asseconda il nostro mondo neuronale, il modo “dell’Uomo di capire come ‘capire’ la realtà esterna a noi”.
Sono queste le basi teoriche alle quali mi sono ispirato per la proposta artistica, per rendere efficace e ‘bello’ il messaggio legato alla Natura nel proprio svolgersi.
Ti ringrazio vivamente per lo spunto e per la riflessione sulla musica, senz’altro importante e, forse, da approfondire nei contenuti.