DISPUTA SULLA REALTÀ (1)
Tutto il mondo è una ribalta?

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DISPUTA SULLA REALTÀ (1)
Tutto il mondo è una ribalta?
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Redazione

Con uno stratagemma letterario, leggero ed ironico, Carlo Martini ci porta sulla scena di un atto unico. personaggi di grande rilievo nel panorama della filosofia, della fisica e dell’arte si confrontano sulla Realtà. Ragioni e caratteri competono dando vita ad un divertente simposietto giocato su livelli di astrazione altissimi.

“Ho visto un’auto sfrecciare a 150 chilometri all’ora!”. Di chi è questa voce e da dove proviene? Cerco di aguzzare gli occhi ma non si scorge niente nel buio assoluto. “Beh, vede…  avrebbe potuto dire…” Una nuova voce dal tono particolarmente garbato, quasi timido, con una erre alla francese che la rende ancora più gentile si sovrappone alla prima. Dove sono? E perché non si vede nulla? “Avrebbe potuto dire, ho visto una macchina sfrecciare davanti a me, che avrà percorso… 3600 chilometri quando il sole sarà nuovamente nello stesso punto in cui è ora”. Continuo a ficcare gli occhi nell’oscurità ed ora mi pare di vedere una figura… sì, si compone piano davanti a me. Sandali ai piedi, jeans ed una t-shirt. Si sta grattando la testa quasi cercando le parole migliori per rendere un concetto complesso accessibile a tutti. Fa una smorfia con il labbro poi continua: “vede, emmh, nel mondo fisico possiamo definire ciò che accade facendo solo riferimento alle cose come si muovono una rispetto all’altra… invece di pensare ad un tempo che passa e alle cose che si muovono nel tempo, possiamo togliere ore, giorni, mesi, ieri, dopo, domani… e il tempo ce lo dimentichiamo… basta abituarsi… le cose funzionano perfettamente lo stesso. In realtà il tempo non esiste”.

Chi sono queste persone? Perché sono qui?… Smetto di domandarmi e mi metto in ascolto…

“Ah Prof. Rovelli, il tempo non esiste?  La invito a fare questa sua osservazione nel mio studio davanti a Luigi, che a causa di un glioblastoma della parte anteriore del lobo temporale destro vive in un mondo al rallentatore o a Sara che per un analogo problema al lobo temporale sinistro ha cominciato a lamentarsi di un’accelerazione del tempo specie al mattino, quando le sembra di non riuscire a concludere niente. O a Giovanni che non sa che ora sia, non sa se sia mattina o sera, tanto da consultare continuamente l’orologio. La realtà del tempo come meccanismo nervoso e il senso che ne ha l’autocoscienza umana, della quale il tempo è elemento essenziale, è un’evidenza della vita che nessuna equazione fisica, per quanto elegante, può eliminare”. “Beh vede Prof Benini, io credo che l’evoluzione abbia selezionato meccanismi nervosi che trasmettono alla coscienza lo spazio tridimensionale della terra piatta e immobile e del Sole che gira intorno: in questo spazio, l’uomo si sente molto più a suo agio di quanto sarebbe se avvertisse di girare a velocità folle su un frammento di sfera, ma altri meccanismi cerebrali, quelli della razionalità, hanno permesso ai fisici di dimostrare che questo è irreale, la realtà professore non è come ci appare, e questo vale anche per il senso del tempo”.

I due girano leggermente lo sguardo in un punto più illuminato. Ora riesco a distinguere, siamo dentro ad una stanza dalle pareti bianche e fatiscenti. Un uomo vestito con una giacca nera ed un’impeccabile bombetta dello stesso colore ben calzata sulla testa è seduto di spalle davanti ad un cavalletto completamente assorto nel suo lavoro. Sembra non essersi accorto della conversazione, intento a finire un’opera ad olio: una tenda da palcoscenico rossa, identica a quella chi si trova in ogni teatro del mondo, disposta a semicerchio campeggia su uno sfondo nero, sospesa su quella che sembra una sorta di spiaggia. Nella parte interna della tenda appare una marina che sfuma all’orizzonte su un cielo sognante ricco di nuvole dello stesso colore della schiuma delle onde.

René Magritte – Le memorie di un santo – Olio su tela – 1960

Al suo fianco due persone, in piedi, osservano l’opera con grande attenzione, commentando fra sé sotto voce, quasi a non voler disturbare l’artista intento a dare le ultime pennellate. “Stupefacente!” esclama il primo, avvolto in una mantella nera dalla quale esce un bavero bianco. I capelli lunghi, anch’essi neri calano su un volto allungato, con un mento leggermente prognato decorato da un pizzetto piuttosto folto ed affilato. “Non avrei saputo descrivere con un’immagine altrettanto sintetica ed al tempo stesso esplicita la condizione della nostra mente nel rappresentare il mondo che è fuori di noi”. “Già!” Ribatte sommessamente l’altra esile figura dalla capigliatura canuta, folta e leggermente disordinata, portando le mani dietro la schiena “tutto ciò che possiamo vedere non è altro che una immagine dell’oggetto nella nostra mente… l’entità che vediamo, l’idea, è una specie di rappresentazione del mondo reale che si inscena nel nostro mondo interiore come in un palcoscenico… geniale!”. Un breve istante di meditazione poi riprende: “Ma secondo lei, caro Monsieur Descartes, qual è la relazione tra l’oggetto che vediamo, – il dato sensoriale intendo dire – e l’oggetto del mondo reale che non vediamo?” “Beh vede carissimo Locke, noi vediamo le idee e queste assomigliano per molti aspetti agli oggetti del mondo reale”.

“Com’è possibile che assomiglino agli oggetti del mondo?” incalza da dietro un uomo dal volto tondo e dall’espressione mite, dopo una breve risata “noi vediamo solo le idee, avete appena detto. Quindi non vediamo gli oggetti del mondo reale. Due oggetti non possono avere lo stesso aspetto se uno dei due è invisibile. Quindi non si può affermare che la rappresentazione visibile nella nostra mente assomigli all’oggetto invisibile che si trova nel mondo reale, perché se uno dei due è invisibile, non ha senso dire che essi si assomiglino. Beh, io direi piuttosto che un’idea non può essere simile ad altro che a un’idea”. Mettendo poi una mano sulle spalle dei due interlocutori “Dovremmo liberarci dalla credenza che ci siano oggetti che esistono in maniera indipendente. Tutto ciò che esiste sono le menti e le idee, ed è questo esattamente quello che il Sig. Magritte sta descrivendo nella sua tela. Vedete? Fuori dal palcoscenico della mente c’è il buio, il buio pesto!”. Poi rivolgendosi con lo sguardo poco più in là “Capisce Prof. Rovelli? Lei crede di descrivere la realtà esterna com’è nella sua struttura fondamentale e non come ci appare, ma non può farlo. Lei per indagare il mondo che ci circonda usa l’immaginazione, entità puramente mentale appartenente alla sua realtà interna, idee insomma. Poi le formalizza utilizzando un linguaggio matematico, formule e numeri, anche questi concetti appartenenti al nostro intelletto e alla ragione, come lei stesso ha ben sottolineato al Prof. Benini, ovvero ancora idee. Infine le sottopone al vaglio della sperimentazione e della misurazione. Ma questa operazione da cosa è caratterizzata? Dalla percezione di uno strumento di misura. E’ l’osservazione del comportamento di oggetti reali, i quali tuttavia non esistono, come ho appena finito di dire, in maniera indipendente dalla nostra mente. Quindi come può la sua fisica dirci qualcosa di oggettivo del mondo esterno?”.

“Le sue sono asserzioni catastrofiche! e hanno condotto a uno dei più assurdi errori della storia della filosofia occidentale: l’idealismo. Tutto ciò che percepiamo non sono altro che le idee nella nostra mente, perché questo è tutto ciò che esiste, ci dice. Per l’amor di Dio!”. A passi svelti e decisi si avvicina al piccolo capannello un uomo distinto di mezza età, capelli grigi separati da una riga laterale, labbra sottili che nella concitazione non accennano affatto a sorridere. “Da quando ha formulato questa sua affermazione in poi, Sig. Berkeley, passando per Kant e Hegel, si sono formate parecchie versioni differenti di questa tesi.La catastrofe consiste nel negare che abbiamo una conoscenza percettiva diretta del mondo, ed ha prodotto il principale orientamento epistemologico degli ultimi trecento anni, orientamento grazie al quale noi abbiamo deciso di spedirci con un calcio fuori dal mondo reale e di entrare nel mondo dello spirito. Cercherò ora di tirarvi fuori da questa catastrofe facendovi capire che le vostre esperienze percettive vi offrono una presentazione diretta degli oggetti e degli stati di cose del mondo. Iniziamo! L’errore consiste nel dire: “Tu non vedi mai il mondo reale: vedi solo la rappresentazione o il dato sensoriale che ha luogo nella mente”. Come uscirne? Così: immaginate di vedere davanti a voi la vostra mano. Chiudete gli occhi. Il mondo non si è fermato; ma qualcosa si è fermato. Ciò che si è fermato è un’esperienza cosciente nella vostra testa e quell’esperienza nella vostra testa era il vedere la mano davanti a voi. Ma quando aprite gli occhi, non vedete il vedere. Ve lo ripeto: non si può vedere il vedere! Ciò che vedete sono gli oggetti e gli stati di cose che sono intorno a voi. Tutto quanto il resto dipende da questo fatto: nel caso della percezione si ha un accesso percettivo diretto del mondo. Io chiamo questa tesi realismo diretto”. L’arringa appassionata è accompagnata da un po’ di tempo da un rumore in sottofondo come di acqua che scorre lentamente, ma tanta è l’attenzione alle parole, che nessuno fino ad ora se n’è accorto. In un ameno e curatissimo giardino, un uomo dalla lunga barba bianca che scende al di sotto di due baffi ancora grigi, sta in piedi davanti a quattro cavalletti totalmente assorto nel compito di catturare l’effetto cangiante della luce sullo specchio d’acqua. “Ecco signori miei! Altro che palcoscenico, la realtà è piuttosto questo: impressione diretta! Non è d’accordo mio caro Monet?”.

Claude Monet – Ninfee

“Visto che me lo chiede, Prof. Searle, provo a dirle quello che penso. Ho dipinto tante di queste ninfee, cambiando sempre punto di osservazione. E, naturalmente, l’effetto cambia costantemente, non solo tanto da una stagione all’altra, ma anche da un minuto all’altro. In realtà queste piante acquatiche sono soltanto il suo accompagnamento. L’elemento base è lo specchio d’acqua il cui aspetto muta ogni istante come per i brandelli di cielo che vi si riflettono conferendogli vita e movimento. La nuvola che passa, la fresca brezza, la minaccia o il sopraggiungere di una tempesta, l’improvvisa folata di vento, la luce che svanisce o rifulge improvvisamente, tutte queste cose che l’occhio inesperto non nota, creano variazioni nel colore ed alterano la superficie dell’acqua. Per ricavare qualcosa di questo continuo mutare bisogna avere cinque o sei tele sulle quali lavorare contemporaneamente e bisogna spostarsi dall’una all’altra tornando rapidamente alla prima non appena l’effetto interrotto riappare. É un lavoro veramente estenuante, ma quanto è seducente! Cogliere l’attimo fuggente, o almeno la sensazione che lascia alla nostra percezione!”.

A passi rapidi e decisi si avvicina un uomo di giovane età, vestito in modo chic, cappotto di alta moda, camicia con colletto inamidato tirato su a coprire il collo, cravatta a strisce ben sistemata sulla camicia. Porta in testa una bombetta e tiene sull’occhio una lente che gli conferisce un’aria vagamente aristocratica, accompagnata da uno sguardo fiero e deciso. Tiene una tela arrotolata sotto il braccio. Guadagna, senza presentarsi, il centro del gruppo, con un fare che non comunica arroganza quanto piuttosto la stessa risolutezza che emerge dal suo bel volto. Srotola la tela tenendola dal lato superiore, a favore del piccolo capannello dei suoi interlocutori. Appare una complessa e affascinante figura scomposta e frammentata. Cosa rappresenta? Si distinguono chiaramente solo alcune parti del volto e delle mani. I lunghi capelli neri, che si riconoscono qua e là sono forse raccolti da un nastro dello stesso azzurro di quello che dovrebbe essere un lungo e ampio vestito. Una ballerina colta in una danza vorticosa. Ecco cosa ha dipinto! Un complesso insieme di linee, che uniscono segmenti e curve. Piani spigolosi frantumano la forma e la disperdono nello spazio.

Gino Severini – Ballerina in blu – 1912

Dopo un attimo di silenzio, il pittore, sporgendo la testa in avanti per verificare che il messaggio che vi ha voluto imprimere sia chiaro, esclama improvvisamente: ricomporre! Ecco la chiave di questo lavoro. Senza questa operazione cognitiva non è possibile capire cosa ci sia rappresentato, ma allo stesso tempo grazie a questa operazione è possibile cogliere la dinamicità della danza. Poi alzando la testa con espressione soddisfatta, rivolge un’occhiata inquisitoria al Prof. Searle. Dopo un nuovo istante di silenzio che ricorda il cacciatore quando carica la cartuccia nel fucile e si concentra per prendere la mira, lascia cadere il monocolo ancora ben calzato con un colpo di sopracciglio: “Accolgo la sua idea di non vedere la percezione, mi ha convinto, ma che in circostanze normali l’accesso percettivo al mondo sia diretto non posso accettarlo. Vede caro Professore, capisco che questa composizione venga presentata al mio e al suo cervello così com’è, un insieme complesso e frammentato di piani, capisco che l’attribuzione di significato, cioè il cogliere la danza vorticosa della mia ballerina, sia di alcuni istanti successiva alla percezione delle linee e dei piani in quanto tali, e comprendo che questo non contraddica la sua idea di percezione diretta, ma oggi credo, cosa che non potevo sapere quando misi mano al pennello nel 1912, che quest’opera dica di più, di quello che voleva dire quando l’ho realizzata e cioè che lei sta sbagliando. Credo che quest’opera sia una rappresentazione anticipatoria di ciò che oggi la scienza descrive riguardo ai processi della percezione visiva. Mi vorrà concedere che in alcuni casi noi artisti vediamo senza sapere, abbiamo una certa conoscenza intuitiva!”

“Beh complimenti Sig. Severini, lei ha acume!” Si sente esclamare nel buio. Un attimo dopo esce dall’ombra la figura di un anziano in giacca, con un elegante farfallino rosso che spicca dal colletto della camicia. Lo sguardo acuto, vivace e gioviale traspare dietro a degli occhiali sottili. Una particolare umanità e saggezza si manifestano addirittura tramite il suo modo di avvicinarsi ed ispirano istintivamente un senso di simpatia mista a rispetto. Scusate se mi intrometto così nella vivace discussione. “Mi pare che possa essere utile sapere che tutte le nostre percezioni del mondo esterno – visioni, suoni, odori, sapori e sensazioni tattili – iniziano nei nostri organi di senso. La visione inizia negli occhi, che rilevano informazioni sul mondo esterno in termini di luce, e queste informazioni vengono raccolte dalle cellule specializzate della retina. I dati che emergono da tali cellule somigliano al mondo visivo nello stesso modo in cui i pixel dell’immagine sul vostro computer somigliano all’immagine reale che si vede nello schermo. Il sistema visivo crea nel cervello rappresentazioni in forma di codici neuronali che richiede di gran lunga più informazione della modesta quantità che il cervello riceve dagli occhi. Questa informazione aggiuntiva viene creata all’interno del cervello. Così ciò che vediamo con l’occhio della mente va notevolmente al di là di ciò che è presente nell’immagine complessiva sulla retina del nostro occhio fisico. Cerco di spiegarmi meglio: l’immagine sulla retina è dapprima decostruita in segnali elettrici che descrivono le linee e i contorni, creando così un confine intorno ad un volto o ad un oggetto. Quando questi segnali passano all’interno del cervello vengono ricodificati e, in base a confronti, giudizi ed altre operazioni in parte innate ed in parte legate alle nostre esperienze precedenti, ricostruiti ed elaborati nell’immagine che percepiamo. Fortunatamente per noi, anche se i dati grezzi raccolti dagli occhi non sono sufficienti per formare il contenuto ricco di ipotesi che chiamiamo visione, il cervello genera ipotesi molto accurate. E’ nella costruzione di queste rappresentazioni interne del mondo visivo che vediamo all’opera i processi creativi del cervello”. Rivolgendo uno sguardo amichevole al pittore aggiunge: “La sua opera è molto utile sa? Per comprender cosa lei ha ritratto, le aree corticali dello spettatore devono fare uno sforzo intellettuale di interpretazione e ricomposizione operativamente simile allo sforzo che le aree sottocorticali compiono per percepire la stessa opera. C’è però una decisiva differenza che rende la sua composizione “didattica”: lo sforzo cognitivo di interpretazione è cosciente, se ci fa attenzione se ne rende conto, mentre i processi che ho appena descritto e che portano alla visione non lo sono affatto. Guardare la sua tela è un buon modo per capire per similitudine i processi inconsci che portano alla percezione visiva”. Dopo un attimo di riflessione aggiunge “Strano eh? Per i più la sua opera sarebbe interpretabile come la metafora della realtà esterna, così come emerge dalla meccanica quantistica, ed invece parla piuttosto del modo che ha il nostro cervello di costruire la realtà interna… Beh, comunque, lasciando da parte quest’ultima considerazione che ci porterebbe lontano rispetto al motivo per cui sono intervenuto, mi sento di condividere le perplessità del Sig. Severini rispetto alla posizione del Prof. Searle: se entrano in gioco tutti questi processi intermedi, ma soprattutto se il cervello integra aggiungendo del suo in modo creativo le informazioni grezze e quindi parziali che arrivano dal mondo esterno, l’accesso percettivo al mondo non può essere definito diretto”.   

“C’è un aspetto ancora più fragile nel ragionamento del Prof. Searle” – interrompe una voce a pochi metri di distanza – “è il passaggio più delicato di tutti, che se chiarito, svelerebbe l’intero mistero della nostra realtà interna”. Seduto su una sedia un uomo corpulento con un gilet di tessuto avana, indossato sopra una ampia camicia di jeans, si sta pulendo gli occhiali con un fazzoletto di stoffa rossa. Alza la testa calva e rotonda, circondata da una folta barba bianca ed accenna uno sguardo sornione, rafforzato da un sorriso beffardo di chi la sa più lunga degli altri. “Vede Professore, quel palcoscenico disegnato dal Sig. Magritte io lo chiamo Teatro Cartesiano. Teatro perché se speculiamo sulla realtà interna attraverso l’introspezione abbiamo spontaneamente la sensazione di mettere in scena qualcosa, proprio come il Sig. Magritte ha efficacemente illustrato, Cartesiano perché il Sig. Cartesio, che è lì al suo fianco, ha influenzato per secoli il pensiero proponendo una riflessione in prima persona. Ma il Teatro Cartesiano non esiste. Aderiamo spontaneamente alla sensazione che esista un occhio interiore che vede e un orecchio interiore che sente, ma non è così. Non c’è nessun osservatore interno, nessun homunculus dentro il nostro cervello che faccia questa operazione. E questo è anche l’inizio del suo ragionamento: non si può vedere il vedere”. Dopo un sospiro che sembra dare ancora più pregnanza a quanto appena detto, si alza in piedi mostrando la pancia decisamente prominente, si calza gli occhiali ora perfettamente puliti, e si avvicina a passi pesanti. “Ebbene sa perché noi siamo portati a cedere a questa fallace sensazione? Proprio perché insistiamo a guardare la nostra mente attraverso la prospettiva in prima persona, con l’introspezione. Lei è categorico a questo proposito: “Ricordate, in queste discussioni, di insistere sempre sul punto di vista in prima persona”, ma sbaglia. Ora, continuando a seguire il suo discorso le chiedo: “cosa è per lei il vedere?”. Glielo chiedo perché non affronta con rigore questa definizione. Cercherò di dirle cosa sono per me quelle che lei chiama “esperienze percettive” e che io preferisco chiamare “immagine manifesta”, quella che noi cioè percepiamo come immagine nel nostro Teatro Cartesiano. Per me l’immagine manifesta non è nient’altro che un’illusione dell’utente, un po’ come il disegno della cartellina nel desktop del computer e il cursore sono una metafora a noi immediatamente comprensibile dei veri processi elettronici che esistono all’interno del calcolatore. Un’illusione che ci è così familiare che la prendiamo non solo per la realtà, ma per la realtà più indubitabile e intimamente conosciuta. E’ l’unico “accesso” di facile uso che abbiamo a ciò che accade tra le nostre orecchie e dietro ai nostri occhi. E’ tutto ciò che si prova ad essere noi, quando di fatto quello che veramente accade è ciò che non vediamo né sentiamo né percepiamo in alcun modo: il complicato apparato neuronale sempre attivo nel nostro cervello, quella che io chiamo immagine scientifica. Quindi l’immagine manifesta che noi percepiamo come la realtà interna è ricoperta da molti strati sovrapposti di vernice interpretativa. Prendiamo il suo esempio del “vedere una mano”. Se lei guarda una mano il suo spazio di lavoro neurale sarà popolato di azioni, grazie ad un’attività sub-personale ed inconscia, svolta appunto a livello neurale, all’interno della quale si verificano le effettive interazioni causali che vi forniscono le capacità percettive, come ci ha appena spiegato il Prof. Kandel”. “Beh Prof. Dennett” – interrompe l’interpellato – “diciamo che lei ha detto, come meglio non si poteva, da filosofo, quello che io ho descritto da uomo di scienza” e sfodera un sorriso aperto ed ironico incapace di nascondere sagacia ed intelligenza. “La scienza” contraccambia con un sorriso di intesa il Prof. Dennett “ha ad oggi chiarito quasi tutti i passaggi tranne il più decisivo: l’ultimo. Provo a spiegarmi meglio. Tutto ciò a cui “lei” ha accesso sono i risultati finali. Non è in grado di descrivere grazie all’introspezione come è avvenuto l’accesso all’esperienza percettiva della mano. Quando cerchiamo di descrivere che cosa accade nella nostra esperienza, ineluttabilmente scivoliamo nella metafora, chiamandola “immagine percettiva”, “idea”, “percezione” cosa che a lei non piace. Ma non può farci nulla per la semplice ragione che non abbiamo una conoscenza più profonda, più vera e più precisa di ciò che è avvenuto dentro di noi. Ogni sforzo che potrà fare per definire “il vedere” finirà inevitabilmente nell’uso di una metafora fino a quando la scienza non avrà definito come dall’attività neuronale si passa alla percezione, come dall’immagine scientifica si passa all’immagine manifesta, come dal cervello si passa alla mente, ossia l’ultimo passaggio. Questo è il grande scoglio sul quale a oggi si infrange il nostro sforzo di comprende, queste le odierne colonne d’Ercole! Fino a quando non avremo chiarito questo cruciale dettaglio -e chissà se sarà mai alla nostra portata- fino a che non avremo capito come il cervello possa produrre le esperienze percettive, non potremo sperare di conoscere veramente nulla del mondo, non potremo dire niente della realtà fuori da noi, ma ahimè neanche nulla della nostra rappresentazione interna del mondo, che al momento è confinata nella nostra dimensione più privata. Tanto grande è ancora l’incertezza!” Sospirando nuovamente ad occhi bassi avanza di due passi poi volge lo sguardo alla piccola platea ora nello sforzo massimo di attenzione. “Pertanto Sig. Magritte io comincerei a tener ben presente che ad oggi non solo non sappiamo con esattezza come e cosa disegnare fuori dal suo palcoscenico, ma che non sappiamo neppure come si possano vedere quelle belle nuvole nel cielo, tanto che se lei volesse rappresentare non la personale esperienza di ciascuno, ma come oggettivamente appaiono quelle nuvole, le consiglierei di prendere in considerazione l’idea di dare una delicata mano di nero anche su quel cielo. Per le stesse ragioni, purtroppo Prof. Rovelli mi tocca affermare, anche se questo potrebbe suonare alle sue orecchie come una resa, che ad oggi non solo non sappiamo dire con certezza epistemica cosa sia la realtà, ma addirittura, mi permetto di farle notare che non siamo affatto certi neanche di come ci appare, se con “ci” intendiamo “a tutti gli uomini allo stesso modo”; al massimo ognuno di noi può sapere, ma certo non dire in modo efficace agli altri, come “gli” appare.   Sento ora le voci più lontane, un dolce dondolio mi ottunde la testa. Mi trovo, adolescente, nel sedile posteriore della macchina di mio padre. Sto percorrendo il sottopassaggio vicino a casa. Al lato destro del finestrino scorrono le montagne russe di un lunapark e mi domando: ma se queste impalcature le vedessi solo io così? Se mio padre le vedesse in un altro modo e le chiamasse anche lui con lo stesso nome? E se mio padre, la macchina, le montagne russe fossero solo un frutto della mia mente? Dopo un istante mi trovo a casa. Ho l’aspetto attuale, i capelli quasi del tutto bianchi. Mi metto il cappotto, prendo sotto braccio il camice, chiudo la porta. Mi sto recando in farmacia per una nuova giornata di lavoro. Mi chiedo: cosa ho visto? Chi erano quelle persone? Dove mi trovavo? Con un sussulto rientro prepotentemente in me e scanso di un soffio una macchina che sfreccia davanti a me a 150 chilometri all’ora.

Personaggi

Ho un debito di riconoscenza nei confronti del Prof. Giulio Tononi perché il suo libro “Phi. Un viaggio dal cervello all’anima” mi ha ispirato nella struttura narrativa di questo breve lavoro.

LEtture

I dialoghi sono stati tratti da:

  1. Carlo Rovelli. La realtà non è come ci appare. Raffaele Cortina Editore
  2. Arnaldo Benini. Neurobiologia del tempo. Raffaele Cortina Editore
  3. John Searle. Il mistero della realtà. Raffaele Cortina Editore
  4. Eric Kandel. L’età dell’inconscio. Raffaele Cortina Editore
  5. Daniel Dennett. Dai batteri a Bach. Raffaele Cortina Editore

Autore

Carlo Martini

Arezzo, 1978. Appassionato di scienze cognitive e di arte.
Si è diplomato al Liceo Scientifico Francesco Redi di Arezzo nel 1997
Si è laureato in Farmacia presso l’Università degli Studi di Perugia
nel 2006 con una tesi sperimentale in chimica farmaceutica
Lavora in una farmacia di Arezzo occupandosi al suo interno anche di medicina integrata

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Di Carlo Martini

Biografia

Carlo Martini

Arezzo, 1978. Appassionato di scienze cognitive e di arte.
Si è diplomato al Liceo Scientifico Francesco Redi di Arezzo nel 1997
Si è laureato in Farmacia presso l’Università degli Studi di Perugia
nel 2006 con una tesi sperimentale in chimica farmaceutica
Lavora in una farmacia di Arezzo occupandosi al suo interno anche di medicina integrata

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