Una specie autolesionista (1)
LA GUERRA

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Una specie autolesionista (1)
LA GUERRA
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Redazione

La specie umana sembra aver raggiunto la possibilità di causare la propria estinzione. Danilo Petri analizza questa tendenza cominciando dal tema della guerra. Partendo dalle predisposizioni genetiche, senza tralasciare le influenze culturali e sociologiche, viene indagata la capacità di generare orrore anche alla luce delle nuove tecnologie che incombono sul destino dell’umanità.

Homo sapiens è cosciente, intelligente, edificante e costruttore. Nel corso della sua lunga storia è stato capace di migliorare la propria esistenza pratica come nessun altro essere della biosfera ma un istinto profondo e quasi insondabile lo ha sempre incitato a farsi del male. La specie umana ha saputo comprendere i vantaggi della cooperazione e della solidarietà, ha costruito società e benessere, ha scoperto tanti misteri della natura ma non ha saputo sottrarsi al male. Uno dei fenomeni più evidenti e permanenti della sua storia maligna è la guerra.

Malgrado ogni tentativo di considerarla come una conseguenza naturale dell’istinto di sopravvivenza – “mors tua vita mea” -, resta sconcertante l’assurdità, il terrore che implica, la crudeltà irrazionale che esprime ogni dettaglio della guerra. Spesso si usa aggettivare la guerra come inumana ma così non è: essa è essenzialmente e profondamente umana.

Tanti tentativi, filosofici, mitici e religiosi hanno cercato di dipanare la matassa genealogica di questo fenomeno e la scienza ha cercato di comprenderne i fattori generativi: tutti sono giunti al dilemma sostanziale: innato o acquisito? I due binari distinti e complementari dell’evoluzione.

Insomma, si tratta di un portato evolutivo che parte dagli istinti primordiali presenti fin dagli albori della vita sul pianeta oppure nasce col manifestarsi della coscienza umana?

In altri termini: si tratta del dispiegarsi all’estremo dell’istinto di aggressività ancestrale, presente in molti animali oppure necessita del movente sociale per sussistere?

Non nego di averci pensato molto e di molto aver letto in proposito senza giungere ad una risposta esauriente. Queste riflessioni hanno accompagnato e integrano un’altra gigantesca domanda: da dove nasce la sete di dominio che caratterizza la nostra specie? In sintesi estrema davvero tutto sembra provenire dalla lotta per la sopravvivenza ma altresì resta insoddisfacente questa “banale conclusione”.

La sete di dominio è, secondo me, il sentimento chiave per comprendere la genealogia della guerra. Una considerazione apodittica: la sete di dominio potrebbe essere l’esito della dipendenza e quindi dell’assuefazione prodotta dalla gratificante ricompensa (a livello delle aree cerebrali relative) dell’esercizio del potere; il potere necessita di sempre più potere per ripetere la ricompensa e ciò si trasforma in una sete incontenibile; il potere è come una droga. 

Detto che la coscienza umana pare essere il prerequisito per concepire la guerra e con essa il delitto, il terrore, l’abominio, è la società ad essere il requisito formale delle guerre che abbiamo conosciuto e conosciamo nel nostro presente. Gli individui si oppongono e confrontano, si insultano e si battono, anche con tremenda crudeltà e giungono fino all’omicidio ma per fare la guerra deve preesistere la società.

Dalle tribù agli stati sono le mire espansionistiche delle società istituite a produrre le guerre ma credo che soprattutto le ribellioni dei deboli, spinti dalle ingiustizie palesi a cui sono sottoposti, siano le scintille che innescano la maggior parte dei conflitti.

Ogni guerra porta con sé un arsenale di armi: acciaio, polvere da sparo, tecnologia, e simboli, ideali, dottrine, religioni, nazionalismi, miti, identità, razzismo. Tutte costruzioni culturali, prodotti spesso irrazionali della coscienza umana. Lo studio della storia indica una continuità impressionante della guerra sul pianeta, cambiano le armi ma molte invarianti si ripetono, quali la conquista dei territori, la volontà di imporre idee e concezioni del mondo deificate da dottrine e precetti, anche difese legittime ma molto spesso strumentali e fasulle; su tutto un carburante venefico, l’odio.

La guerra pare essere un permanente carattere dell’umano che, in quanto essere sociale, porta costantemente agli estremi il desiderio di dominio, di sicurezza, di imperio, di utilità a svantaggio dell’altro.

Il secolo scorso non ha conosciuto soltanto le due guerre mondiali con le sue tragedie e i suoi morti, la contabilità è assai più grave. Consideriamo per esempio l’ultimo decennio: Afghanistan, Sudan, Ruanda, Angola, Bosnia, Guatemala, Liberia, Burundi, Algeria, circa sei milioni di morti. E il secolo in corso non smentisce la permanenza della guerra: si pensi alla Siria per esempio.

Nel mondo odierno sono in corso una trentina di conflitti armati e muoiono sul campo centinaia di migliaia di umani fra cui tanti civili e moltissimi bimbi. È pur vero che nella storia moderna il tasso di morti violente è diminuito rispetto al passato e che ciò può indurre ad un certo “ottimismo” (Pinker 2013) ma non possiamo essere ottimisti a dispetto dei numeri e dei rischi che incombono sulla nostra specie.

In termini di rischio bisogna sempre ponderare la percentuale che qualcosa possa accadere con le conseguenze che ciò potrebbe produrre: se ho una piccola percentuale di possibilità, mettiamo l’1%, che un fatto possa accadere. accanto al dimostrabile possibile esito catastrofico, per esempio la morte di un miliardo o più persone, quella piccola percentuale ci autorizza a preoccuparci e non poco. A fronte di una catastrofe di dimensioni esistenziali per la specie ci dovrebbe preoccupare anche una possibilità su diecimila, non credete? Preoccuparsi e discutere e studiare rimedi a possibilità remote è un dovere morale.

Nel nostro presente ci sono molte possibilità di armamento e molteplici ragioni sociali e culturali, che possono spingere gli uomini verso derive inaccettabili e paurose. Immaginiamo cosa potrebbe causare l’uso di armi chimiche, batteriologiche o virali nelle mani di terribili terroristi animati e spinti dall’odio e dal fanatismo, religioso o ideale: credo che tale rischio possa essere calcolato ma l’inquietudine maggiore deriva dal fatto che le tecnologie utili per realizzare atti infami può diventare sempre più facile da reperire e a basso costo. Gli stati hanno legiferato per proibire l’uso di tali armi ma con i terroristi come la mettiamo? Non solo la guerra, per inciso, potrebbe metterci di fronte a tali rischi: anche semplici errori di laboratorio, fughe di protocolli e formule e persino diffusione sostanziale di batteri o virus per errore sono pericoli concreti.

Adesso sta emergendo un nuovo grande pericolo nella corsa agli armamenti: le armi autonome.

Le armi autonome sono armamenti in grado di identificare, selezionare e ingaggiare un bersaglio senza un controllo umano significativo. Ancora, nell’ambito delle azioni omicide, non sono in uso (almeno sembra) e il dibattito sul futuro possibile è aperto. Ad oggi abbiamo armi semiautonome che possiedono autonomia solo su alcune loro componenti ma sottostanno al controllo da remoto di un essere umano, mentre un sistema del tutto autonomo potrebbe prendere decisioni su come raggiungere e colpire i bersagli pre-programmati. Come qualsiasi inquietante pericolo, la transizione può essere foriera di grandi vantaggi competitivi e infatti molti strumenti che usano l’autonomia sono utili e non destano preoccupazioni: “il decollo, l’atterraggio e il rifornimento di carburante di aeromobili, sistemi di prevenzione delle collisioni a terra, smaltimento delle bombe e sistemi di difesa missilistica” (dal web). Però il dibattito pubblico si deve occupare dell’uso della forza e della possibilità di colpire ed uccidere l’essere umano. Le armi autonome letali possono produrre una vera rivoluzione nel modo di fare la guerra.

Immaginiamoci carri armati, navi, sottomarini, grandi e piccoli droni, magari piccolissimi e operanti in sciami, dotati di capacità di riconoscimento facciale, di visione, di movimento autonomo in terreni ostili; immaginiamoci questi armamenti schierati, altamente letali e senza la possibilità di un controllo diretto e persistente da parte di un operatore umano e di una linea di comando, quindi nell’impossibilità di ritirare l’ordine prescritto. Gli scenari sarebbero terrificanti, mai visti nella storia del mondo e della guerra. Ognuno può intravedere la portata di questa innovazione e ne può ricavare un sentimento di terrore e di impotenza dell’uomo che tuttavia è l’artefice di questa tecnologia.

Ci sono persone, filosofi e scienziati che vedono nelle armi autonome letali la possibilità di ridurre il numero dei morti nelle guerre, più precisione e meno vittime fra i soldati; ma altri si preoccupano della possibilità di una crescita immotivata e crudele dell’uso di queste armi, in particolare per il fatto che potrebbero cadere nelle mani sbagliate: terroristi, fanatici, dittatori, folli.

“Oltre 4500 ricercatori di robotica e intelligenza artificiale, 250 organizzazioni, 30 nazioni e il Segretario generale delle Nazioni Unite hanno chiesto un trattato legalmente vincolante che vieti l’AWS (sistemi d’arma autonomi) letale. Hanno incontrato resistenza da paesi che sviluppano un letale AWS, temendo la perdita della superiorità strategica.” (dal web)

Quest’ultimo è lo stato ufficiale del dibattito politico che è solo da poco iniziato e che continuerà a lungo nella speranza che la noncuranza sull’autolesionismo della specie umana sia sostituita dalla cura del nostro futuro. Restare il più possibile al riparo dal terrore incontrollabile! (Questo tema lo incontreremo ancora, quando parleremo della Intelligenza Artificiale).

A partire dalla fine della seconda guerra mondiale, dopo Hiroshima e Nagasaki, la specie umana è sottoposta alla più grande minaccia della sua storia: la guerra atomica.

Durante la Guerra Fredda si contavano nel mondo oltre 70.000 testate nucleari e le tensioni politiche fra i due blocchi portarono i rischi di conflitto nucleare sulla soglia dello scoppio. Abbiamo sfiorato almeno due volte la catastrofe. Solo grazie alla saggezza di due uomini, eroi quasi dimenticati e ai più sconosciuti, fu evitata la catastrofe. Durante la crisi dei missili di Cuba la guerra fu a un passo dal realizzarsi e se questo non avvenne fu certamente per gli sforzi diplomatici di Kennedy e Chruscev ma fu un uomo che evitò il peggio: Vasilij Arkhipov, pluridecorato ufficiale della marina sovietica, comandante in seconda di un sottomarino dotato di testate nucleari, si oppose alla decisione di rispondere all’attacco statunitense con bombe di profondità ovvero all’evidenza che la guerra fosse iniziata; se non lo avesse fatto (grazie alla linea di comando che prevedeva che l’ordine fosse approvato dai tre ufficiali al comando) sarebbe partita la risposta nucleare con esiti esiziali. Un secondo eroe fu Stanislav Petrov, ufficiale dell’aviazione sovietica. Nel 1983 vide comparire nel monitor un evidente segnale di allarme: gli americani avevano lanciato cinque missili nucleari in direzione della Russia. Se avesse seguito il protocollo avrebbe dovuto comunicare al comando quanto aveva visto e la conseguenza sarebbe stata una risposta immediata di contrattacco nucleare; non lo fece, grazie alla sola sua intuizione e forse grande buon senso, e la guerra fu scongiurata. Si capi soltanto dopo che l’allarme fu frutto di un errore del sistema di rilevamento.

Ma il rischio persiste ancora oggi benché il mondo e la geopolitica siano profondamente cambiati, soprattutto a partire dalla implosione del sistema sovietico. Infatti a partire dagli anni novanta molti passi sulla non proliferazione delle armi nucleari sono stati fatti: le testate nel mondo oggi sono circa 13.000 anche se i paesi che le detengono sono diventati nove, anche se le armi oggi sono più efficienti e le tensioni multilaterali non son diminuite affatto, anche se molti paesi sembrano voler rafforzare e migliorare i loro arsenali, anche se alcuni paesi rivendicano il diritto di costruire il loro potenziale atomico.

Gli scenari di rischio sotto osservazione sono fondamentalmente due: un attacco ad una grande metropoli (o più) oppure una guerra totale: nel primo caso si conterebbero milioni di morti dirette a cui si sommerebbero quelle per gli esiti delle radiazioni; nel secondo caso si parlerebbe di miliardi di morti e di conseguenze esistenziali per la specie in considerazione di quanto in questi anni si è capito riguardo l’inverno nucleare che seguirebbe ad un tale conflitto. “Indipendentemente dalle città bruciate, enormi quantità di fumo potrebbero diffondersi in tutto il mondo, bloccando la luce solare e trasformando le estati in inverni, proprio come quando gli asteroidi o i supervulcani hanno causato estinzioni di massa in passato.” (dal web)

 Le prime considerazioni sull’inverno nucleare risalgono agli anni ottanta ma oggi i modelli climatici sono più accurati e le conseguenze (per quanto imprevedibili con precisione) sono calcolate in termini di una diminuzione di temperatura dai -20° ai meno -35° producendo un inverno prolungato di almeno un lustro e dieci anni complessivi di incapacità di produrre alimenti. Gli effetti poi di una retrocessione inaudita della civiltà, con giganteschi problemi per la produzione di energia, per l’elettronica e mille altre problematiche, sono terrificanti. La specie forse non si estinguerebbe ma al solo pensiero, alla sola immagine di un tale mondo, la coscienza di specie dovrebbe sussultare e la politica dovrebbe agire potentemente per abbassare e di molto il rischio, se non eliminare dalla nostra visione del futuro una tale distopia. L’uomo inventa e non può dis-inventare, l’uomo è capace di autolesionismo e lo pratica ma può contenere questa spinta suicida se riesce a concepire la vita umana come vita di una specie nell’evoluzione della biosfera terrestre. Almeno per i prossimi duecento anni non esageriamo e non sottovalutiamo, non estinguiamoci!

LEtture:

  1. René Girard – Portando Clausewitz all’estremo – Adelphi – 2008
  2. James Hillman – Un terribile amore per la guerra – Adelphi – 2005
  3. Richard Muller – Fisica per i presidenti del futuro – Codice – 2009
  4. Jean-Didier Vincent – Biologia del potere – Codice – 2019
  5. Martin Rees – Il nostro futuro, scenari per l’umanità – Treccani – 2019
  6. https://futureoflife.org/

Autore

Danilo Petri

Fiesole 1956. Giocoso erudito, intellettuale del sottosuolo, filosofo
per diletto.

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Di Danilo Petri

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Danilo Petri

Fiesole 1956. Giocoso erudito, intellettuale del sottosuolo, filosofo
per diletto.

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