
Redazione
Realtà, percezione, esperienza, coscienza. Questo importante articolo di Carlo Martini ruota intorno a queste quattro parole, termini e concetti che sono al centro del dibattito planetario scientifico e filosofico, potremmo dire da sempre ed oggi più che mai. Martini si serve di due figure straordinarie dell’arte astratta/concettuale, Mondrian e Kandinskij, due artisti che hanno lasciato una profonda traccia nel percorso storico dell’arte come conoscenza. Non tratta le opere ma i pensieri dei due pittori e li mette a confronto con la scienza, la filosofia della mente e le neuroscienze contemporanee e odierne. Ne scaturisce un articolo robusto ed elegante, un testo che informa e fa riflettere.
L’ESPERIMENTO DI BRUNELLESCHI

Davanti alla porta della cattedrale di Firenze, un giovane e geniale architetto accolse una sfida intellettuale straordinaria per la sua epoca: rappresentare su tavola lo spazio così come lo vediamo, in tre dimensioni. Il giovane architetto si chiamava Filippo Brunelleschi e vinse la sfida. Pose le basi teoriche e pratiche per realizzare in pittura quella che fu poi chiamata prospettiva scientifica. Lo fece realizzando una dettagliatissima visione del Battistero della sua città su una tavoletta di legno quadrata che misurava mezzo braccio per lato. Dice il suo biografo Antonio Manetti che il risultato fu così impressionante “che non è miniatore che l’avessi fatto meglio”. Fu un vero e proprio esperimento percettivo perché Brunelleschi non si accontentò di produrre l’immagine dell’edificio, ma escogitò un’attrezzatura per dimostrare la verosimiglianza del suo disegno rispetto al monumento reale. Sul retro della tavoletta lignea praticò un foro conico. Si pose a circa 60 centimetri all’interno della soglia del Duomo, così che ponendo l’occhio sul foro poteva scorgere il Battistero che si ergeva davanti a lui. Fissò la tavoletta sopra un supporto ligneo scorrevole e pose davanti alla tavoletta uno specchio, così che guardando dal buco poteva scorgere anche l’immagine riflessa del suo dipinto. Muovendo lo specchio in modo opportuno riusciva ad ottenere un’immagine intera costituita dal perfetto accostamento tra la metà dell’immagine del suo dipinto riflessa nello specchio, con la metà speculare del Battistero reale. Ecco la dimostrazione del trionfo di Brunelleschi: era riuscito a realizzare un’immagine identica a quella reale, era in definitiva riuscito a catturare la realtà. E aveva un metodo per riprodurla ogni volta che voleva, per sempre.
Il trionfo di Brunelleschi appena descritto è tale perché si poggia su una convinzione implicita, una visione filosofica di fondo, che soggiace al suo fare: esiste un mondo là fuori e ciò che ogni uomo percepisce – in questo caso attraverso la visione – è esattamente ciò che c’è là fuori. Percepire, date queste premesse, corrisponde a conoscere. Questo tipo di credenza oggi prenderebbe il nome di realismo ingenuo. “Realismo” perché afferma che esiste una realtà esterna ed indipendente da chi la osserva, “ingenuo” perché considera la percezione come un resoconto veridico esatto ed indubitabile di essa senza porsi alcun problema. A ben pensarci questo tipo di posizione sulla realtà è istintivo. Nasce dall’esperienza continua che ognuno di noi fa del mondo, dal modo con cui in ogni istante entriamo in relazione con il mondo stesso. Percepiamo ciò che ci circonda come qualcosa che sta fuori da noi, che è altro da noi, come qualcosa di assolutamente, inequivocabilmente e vividamente reale. Non ci viene proprio di dubitarne. Se non avessimo questo pervasivo sentimento di veridicità che accompagna e caratterizza la nostra relazione con il mondo probabilmente finiremmo per rimanere smarriti e paralizzati in preda all’indecisione. Non solo, c’è anche un altro elemento che predispone all’approccio istintivamente “ingenuo” alla realtà. Viviamo questo rapporto come indiscutibilmente nostro, una intima sensazione di appartenenza. Per dirla tutta è “così personale” che lo percepiamo da un particolare nostro punto di vista, da una specifica prospettiva, da una zona che, potremmo dire, sta “dentro la nostra testa”, più o meno centralmente, diciamo dietro i nostri occhi. Un celebre disegno a matita del fisico Ernst Mach riporta esattamente questa visione comune a tutte le esperienze.

Tuttavia siamo dotati di pensiero, e di pensiero critico, per cui è lecito e assai proficuo dubitare della veridicità della nostra esperienza del mondo. Si possono adottare posizioni scettiche più o meno radicali fino ad arrivare alla più estrema, ovvero che la percezione del mondo sia una mera illusione prodotta dal nostro cervello, e che quindi non esista alcuna realtà fuori da noi. Di certo possiamo dire che l’unico accesso al mondo a noi consentito non è affatto un accesso diretto ma mediato dalla nostra esperienza di esso. Noi abbiamo accesso diretto e conosciamo solo la nostra esperienza del mondo. Pertanto qualsiasi sia la nostra relazione con la realtà è sicuramente indispensabile riflettere, per trovare il modo più completo e preciso di conoscere e descrivere il modo in cui il mondo ci appare e in cui lo esperiamo, l’effetto che ci fa vivere una determinata circostanza. In una parola è necessario comprendere la struttura delle nostre esperienze del mondo. Portare a termine questo arduo compito è quello che si prefigge l’approccio filosofico che prende il nome di fenomenologia.

Edmund Husserl, il filosofo che può essere considerato il padre della fenomenologia individuò una sorta di metodo costituito da quattro operazioni che considerava fondamentali per poter riflettere sulla struttura generale delle nostre esperienze. Per prima cosa sospendere quell’atteggiamento istintivo ed ingenuo al quale è stato fatto riferimento poco sopra di considerare la nostra esperienza del mondo indubitabile. Husserl chiamava questa predisposizione mentale atteggiamento naturale e definiva l’operazione di sospensione della naturale inclinazione dogmatica nei confronti della veridicità della realtà con il termine epoché. Alla seconda operazione dette il nome di riduzione fenomenologica. Utilizzando il termine “riduzione” re-ducere ovvero condurre indietro, indicava un moto che doveva partire da un’immersione nel mondo, dall’esperienza tale e quale, da una condizione intuitiva e ancora priva di riflessione, e portare indietro, grazie alla riflessione filosofica, verso il modo in cui il mondo ci si manifesta, così da definire le strutture essenziali che caratterizzano le nostre esperienze. In terzo luogo Husserl raccomandava come necessaria l’operazione di estrarre le caratteristiche essenziali e invarianti delle cose delle quali facciamo esperienza. Suggeriva di usare l’immaginazione per spogliare gli oggetti delle loro proprietà non essenziali e di trattenere solo quelle che resistono al cambiamento, quelle che, una volta cambiate, avrebbero fatto sì che l’oggetto cessasse di essere tale. Chiamava questa operazione variazione eidetica dove per eidetica intendeva l’essenza delle cose mutuata dal concetto platonico di idea. L’ultima operazione che Husserl considerava indispensabile per riflettere e definire le esperienze vissute era quella di confrontare le proprie analisi fenomenologiche con quelle degli altri, per raggiungere una corroborazione intersoggettiva, ossia per ottenere una misura del grado in cui le strutture scoperte possono essere considerate universali o perlomeno condivisibili.
Tenendo presente questo metodo che ancora oggi è il punto di riferimento per chi si approccia all’analisi filosofica delle esperienze umane, proviamo ad individuare le caratteristiche peculiari di tali esperienze. Il neuroscienziato Christof Koch individua cinque proprietà che risultano sicuramente utili in questa disamina. Secondo lui qualsiasi esperienza cosciente è caratterizzata da questi distinti e innegabili elementi: ognuna esiste di per sé, è strutturata, informativa, integrata e definita. Di particolare rilievo mi sembra il fatto che sia contemporaneamente strutturata ed integrata. Per Koch strutturata significa che ogni esperienza contiene delle distinzioni al suo interno. Per esempio un’esperienza visiva è costituita da un fuoco centrale, uno sfondo, più piani, un centro e una periferia, una destra e una sinistra, un vicino ed un lontano, e questi sono solo alcuni degli innumerevoli aspetti. Tuttavia è integrata ovvero irriducibile alle sue componenti indipendenti. Tutte le distinzioni e le relazioni presenti al suo interno non possono essere separate le une dalle altre e scomposte senza perdere qualcosa dell’esperienza stessa. Ognuno di noi fa esperienze unitarie ed olistiche. Per questo ogni esperienza può essere analizzata nelle sue varie componenti ma non può che essere descritta e considerata unitariamente.

Tenendo presente che ogni esperienza è strutturata ma integrata, articolata ma non scomponibile senza perdere una qualche parte, provo a definire quelli che, secondo me, sono gli elementi essenziali che costituiscono un’esperienza. Ogni nostra esperienza è fatta di percezioni, emozioni coscienti e ricordi. La percezione a sua volta si distingue in percezione sensoriale (ed è bene sottolineare che è composta dalle informazioni che arrivano da tutti e cinque i sensi), propriocezione (la capacità del nostro corpo di percepire la propria posizione, movimento e orientamento nello spazio oltre che il confine del proprio corpo rispetto all’ambiente) ed enterocezione (la percezione delle sensazioni provenienti dall’interno del nostro corpo). Mi pare che ogni istante della nostra vita sia la complessa e sempre variegata combinazione di questi elementi. A questo quadro manca un elemento determinante: la consapevolezza. Ogni esperienza è tale se si accompagna ad un qualche grado di consapevolezza dell’esperire. Un’esperienza non consapevole è un’esperienza non vissuta e quindi ogni esperienza è per sua costituzione cosciente. A mio avviso questa è una delle possibili definizioni di quel concetto così sfuggente e misterioso che prende il nome di coscienza: la consapevolezza dell’esperienza. E la consapevolezza si manifesta con una proprietà peculiare, il pensiero. E quando il pensiero si rivolge verso l’interno dell’uomo, e diventa introspezione nascono le domande e le possibili risposte intorno all’esperienza.
KANDINSKIJ E LA SOGGETTIVITÀ

Queste domande abitano ed agitano tutti gli uomini e tra questi per primi i filosofi, gli scienziati e gli artisti. Tra questi ultimi è stato sicuramente interpellato intellettualmente uno dei protagonisti dell’arte del primo Novecento: Vasilij Kandinskij.
Spesso il pensiero dell’artista si nasconde nelle opere che consegna alla storia, pronto ad essere interpretato e ricavato dall’analisi dello stile, della scelta del soggetto, dell’uso della tecnica utilizzata e delle scelte compositive. Più raramente è affidato ad appunti personali o scambi epistolari. In alcuni casi è ricavabile dallo studio delle vicende biografiche. Come nel precedente caso di Brunelleschi le posizioni filosofiche quasi sempre soggiacciono e debbono essere ricostruite. Nel caso del lavoro che avete sotto gli occhi starà ad ogni lettore il giudizio sulla plausibilità dell’interpretazione data.
La posizione di Kandinskij rispetto alla questione del rapporto fra realtà e percezione è ricavabile dai suoi scritti oltre che dalle opere. A questo proposito credo sia necessario specificare un concetto. Come abbiamo visto non c’è coincidenza né fra percezione ed esperienza né fra percezione e coscienza. La percezione – ed in particolare la percezione visiva – è solo uno degli elementi che compongono l’esperienza, e la coscienza, stando a quanto proposto sopra, può essere definita come la consapevolezza di un’esperienza. Quindi la percezione è solo un elemento della questione, tuttavia può essere considerato di gran lunga l’elemento più pervasivo dell’esperienza umana. Quindi non stupisce che molti pensatori e fra questi gli artisti si siano concentrati su questo specifico aspetto dell’esperienza.
In particolare sono di seguito riportate tre citazioni tratte da due saggi scritti direttamente dal pittore russo intorno ai 45 anni e risalenti al 1911 e al 1912. La prima appartiene a “Il problema delle forme” pubblicato nella rivista Der Blaue Reiter, gli ultimi due a “Lo spirituale nell’arte”.
Scrive Vasilij Kandinskij:
Per “comprendere” questo genere di quadri è indispensabile […] riuscire a udire il mondo intero così com’è, senza un’interpretazione oggettiva. In quest’arte le forme astrattizzate o astratte (linea, superfici, macchie, ecc.) non sono importanti in quanto tali; ciò che importa è la loro risonanza interiore, la loro vita. […] nell’arte astratta la riduzione al minimo dell’elemento “oggettivo” deve essere considerata come l’intensificazione massima del fattore reale.
Il colore ha una forza, poco studiata ma immensa, che può influenzare il corpo umano, come organismo fisico. […] In generale il colore è un mezzo per influenzare direttamente l’anima. Il colore è il tasto. L’occhio il martelletto. L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, fa vibrare l’anima. È chiaro che l’armonia dei colori è fondata solo su un principio: l’efficace contatto con l’anima. Questo fondamento si può definire principio della necessità interiore.
Torniamo all’esempio del pianoforte. Sostituiamo il “colore” e la “forma” con l’“oggetto”. Ogni oggetto (non importa se creato dalla “natura” o nato dalla mano dell’uomo) ha una sua vita e un suo effetto. L’uomo subisce continuamente questi effetti psichici, che a volte si annidano nell’inconscio (dove restano vitali e creativi), a volte giungono alla coscienza.

Dagli estratti qui riportati si può ricavare che secondo Kandinskij la realtà là fuori, gli oggetti esistono. È dunque un realista. Tuttavia sembra ammettere che percepiamo tale realtà in un modo mediato. Prendiamo quello che scrive sul colore, tenendo a mente che, come scrive, il colore può essere sostituito con un oggetto e quindi il colore non è che un aspetto della realtà esterna: il colore è un mezzo per influenzare l’anima. E ancora: ogni oggetto ha un suo effetto psichico, a volte inconscio a volte conscio. Ma ancora consideriamo quello che scrive sulle forme: linee, superfici, macchie, tutto ciò che è oggettivo, o in altre parole la realtà per come si offre all’osservatore, non sono elementi importanti in quanto tali; ciò che importa è la risonanza interiore. Quest’ultima è il vero fattore reale. Scrivere questo è un po’ come scrivere che quello con cui noi siamo veramente in diretto contatto non è il mondo e gli oggetti che stanno là fuori, ma l’effetto che imprimono nella nostra mente. Quello che veramente conosciamo è l’effetto che ci fa il mondo, è la nostra esperienza soggettiva e non la realtà in quanto tale. E data questa premessa, fonda la sua estetica su un concetto per lui essenziale: un’opera è arte quando produce un contatto efficace con l’anima, cioè con la psiche.

Da questa interpretazione delle parole di Vasilij Kandinskij si può concludere che il pittore russo adottasse a pieno, in modo più o meno consapevole, la prospettiva fenomenologica del mondo. La sua è una ampia riflessione sulla natura e la struttura delle esperienze umane. Non solo, dai suoi scritti si può anche scorgere che utilizzasse e condividesse il metodo proposto da Husserl per affrontare l’analisi di tali esperienze, attestandosi così come filosofo di primo ordine.
Che Kandinskij aderisca implicitamente all’epoché husserliana si evince quando dichiara “è indispensabile […] riuscire a udire il mondo intero così com’è, senza un’interpretazione oggettiva”. Ma la sua analisi si spinge ben più in profondità e sembra scandagliare la correlazione tra strutture specifiche della soggettività e modi particolari dell’apparire dei fenomeni, ovvero sembra adottare la riduzione fenomenologica quando scrive nel suo più celebre saggio “Punto, linea, superficie”, pubblicato nel 1926:
Noi ci apriamo a forza questa via affascinante fondandoci sulle reazioni della nostra sensibilità, che certamente sono radicate all’origine in esperienze intuitive. Ma la sola sensibilità potrebbe anche farci deviare facilmente e errori di questo genere possono essere evitati solo con l’ausilio di un esatto lavoro analitico. Un giusto metodo, però, ci terrà lontano dalle strade sbagliate.
Ricordiamo infatti che la riduzione fenomenologica parte da una immersione nel mondo che è inizialmente preriflessiva, (Kandinskij qui dice che la via che sta tracciando è fondata nella sensibilità e radicata in esperienze intuitive), per poi giungere alla comprensione, attraverso l’analisi, della struttura esperienziale. E l’“esatto lavoro analitico” ed il “giusto metodo” di cui parla l’artista russo pare proprio riferirsi ad una operazione filosofica di questo genere.
Ma a cosa si riferisce Kandinskij quando scrive “noi ci apriamo a forza questa via affascinante”? In sintesi si riferisce in primo luogo alla sua riflessione e al suo sforzo di comprendere e descrivere la struttura dell’esperienza estetica che prende le mosse da quella che chiama necessità interiore che si concretizza nella composizione dell’opera; ed in secondo luogo allo sforzo di individuare le regole compositive per esprimere in modo esatto ed efficacie tale necessità interiore. Un esempio iconico di questo straordinario lavoro è l’analisi dell’effetto che il colore produce in chi lo osserva, tratto da “Lo spirituale nell’arte”:
Il rosso medio, come il cinabro, ha la stabilità di un sentimento profondo: è come una passione che arde senza scosse, una forza sicura di sé che non è facile soffocare, ma si può spegnere nel blu come un ferro infuocato nell’acqua. Questo rosso di solito non sopporta niente di freddo; mescolato con colori freddi perde sonorità e significato. O meglio: questo raffreddamento violento, tragico, fa nascere un tono “sporco” che i pittori di oggi evitano e disprezzano. E fanno male. Perché lo sporco, nella sua forma materiale come immagine e cosa materiale, possiede al pari di ogni altra cosa un suono interiore. E quindi la sua eliminazione nella pittura attuale è ingiusta e unilaterale, come lo era la vecchia paura dei colori “puri”. Non bisogna dimenticare che tutti i mezzi dettati da una necessità interiore sono puri.
È a questo punto chiaro oltre ogni possibile dubbio quanto per Kandinskij sia centrale ed essenziale l’esperienza personale, come l’opera risuoni interiormente. Tuttavia il traguardo più alto ed arduo che si pone, da quello che fanno trasparire i suoi scritti, sembra essere quello di superare la dimensione soggettiva dell’esperienza cosciente per condividerla con gli altri esseri umani. Anche qui pare accogliere l’invito di Husserl a tentare la strada della corroborazione intersoggettiva. Scrive ancora ne “Il problema delle forme”:
L’ideale critico d’arte non è quindi chi va alla ricerca di “errori”, “deviazioni”, “ignoranze”, “prestiti”, ma chi cerca di sentire in quale modo questa o quella forma agiscono interiormente, per tentare poi di comunicare al pubblico, con vigore espressivo, la sua esperienza.
E sottolinea ne “Lo spirituale nell’arte” quasi a presentare la dimensione soggettiva come una nemica:
L’azione della necessità interiore e lo sviluppo dell’arte sono una progressiva espressione dell’oggettività eterna nella soggettività temporanea. E dunque la lotta dell’oggettività contro la soggettività.
E non solo; sembra possibile scorgere tra le righe dei suoi scritti una certa frustrazione, nel costatare di non riuscire a superare la dimensione privata entro la quale è confinata l’esperienza soggettiva, tanto da sentire il bisogno di trovare una grammatica ed un linguaggio descrittivi oggettivi. Scrive in “Punto, linea, superficie”:
I progressi raggiunti col lavoro sistematico creeranno un vocabolario di elementi, che, in un ulteriore sviluppo, porterà a una “grammatica”. Essi condurranno alla fine a una teoria della composizione che varchi i limiti delle arti singole, e si riferisca all’“arte” in generale. […] Ogni forza trova la sua espressione nel numero, e ciò si chiama espressione numerica. Oggi, questa rimane, nell’arte, un’asserzione più che altro teorica, ma che, nondimeno, non deve essere trascurata: oggi ci mancano delle possibilità di misurazione, che però una volta o l’altra possono essere scoperte e non rimanere un’utopia. Da quel momento in poi, ogni composizione avrà una sua espressione numerica, anche se questo dovrà valere, all’inizio solo forse per il suo “schema” e per i suoi complessi maggiori. Il resto è soprattutto una questione di pazienza, che porterà alla dissezione dei complessi maggiori in complessi sempre più piccoli, subordinati, solo dopo la conquista dell’espressione numerica sarà completamente realizzata quella teoria esatta della composizione, che è oggi ai suoi inizi.
Non è esplicitato da Kandinskij nei suoi scritti, cosa intenda quando parla di “progressi” da raggiungere “col lavoro sistematico”. Non si può escludere a priori che non riflettesse fra sé e sé sui limiti dello strumento introspettivo e di come credesse possibile superarli. Non sappiamo a quali strade pensasse per non cadere in quegli “errori” a cui “la sola sensibilità” avrebbe potuto farlo “deviare facilmente”. Probabilmente non aveva idee neanche abbozzate, dal momento che riconosce che, al momento in cui scriveva, i suoi auspici sono puramente teorici ed è “soprattutto una questione di pazienza”. Non sappiamo cosa pensasse dei risultati dei suoi sforzi nel descrivere la sensazione che provava di fronte ai colori. Se fosse soddisfatto delle metafore utilizzate per descrivere l’effetto che gli faceva il cinabro. Se quella “passione che arde senza scosse, una forza sicura di sé che non è facile soffocare” rendesse esattamente il suo stato d’animo. Si può ipotizzare che sentisse la metafora da lui utilizzata uno strumento non del tutto appropriato ed esaustivo, perché sennò, auspicare progressi? Non è dato sapere se avesse cercato strumenti più adatti senza trovarli. Sicuramente la soluzione al problema della comunicazione intersoggettiva dell’esperienza personale, della necessità interiore, la individuava nell’acquisizione di una teoria scientifica delle regole compositive.

Molti anni dopo, corroborato dalle acquisizioni scientifiche non a disposizione di Kandinskij, il filosofo Daniel Dennett prende una posizione netta nei confronti di domande come quelle che forse si è posto il pittore russo: la metafora è uno strumento limitato di per sé, non darà mai un resoconto completo ed esaustivo dell’esperienza. E prende una posizione ancor più radicale. Non solo il linguaggio non si potrà mai affrancare dalla metafora, ma anche la coscienza (e con essa l’effetto che fa vivere una qualsiasi esperienza), è essa stessa da considerare una metafora dei processi neurobiologici sottostanti. Definisce lo stato cosciente una “illusione dell’utente”, e, neanche a farlo apposta, per rendere più chiaro il concetto usa una metafora. È una condizione simile alle icone nel desktop: l’utente punta il cursore su di esse, le apre o le sposta, ma queste sono solo un simbolo di ciò che accade veramente nei circuiti elettronici, e che l’utente tranquillamente e volentieri ignora. Definisce le icone, e quindi uscendo da metafora, l’effetto che ci fa – per esempio la percezione visiva come parte di un’esperienza – “l’immagine manifesta”, e i processi elettronici, e quindi i complicatissimi processi neurobiologici, “l’immagine scientifica”. Sarà sempre impossibile poter descrivere agli altri ciò che proviamo attingendo introspettivamente alle nostre sensazioni per il semplice fatto che abbiamo accesso ad una metafora ed ignoriamo totalmente i reali processi che causano le nostre sensazioni. Questo è un limite insuperabile che rende la prospettiva in prima persona non adatta all’analisi delle esperienze umane. Bisogna abbandonare dunque la prospettiva in prima persona, e con essa quella che lui chiama “autofenomenologia”, ovvero esattamente lo strumento utilizzato da Kandinskij, per approdare ad un nuovo metodo. Propone come soluzione del problema quella che lui chiama “eterofenoemnologia”, cioè adottare la prospettiva in terza persona rispetto all’esperienza, per analizzarla in modo oggettivo. A tal proposito scrive: “Le vostre convinzioni sono senza dubbio attendibili, ma non infallibili. Un’altra persona potrebbe aiutarvi a metterle alla prova e forse farvele modificare di fronte ad altre esperienze”.

MONDRIAN E LA RICERCA DELL’OGGETTIVITÀ

In totale consonanza con questa nuova prospettiva sembra essere un altro protagonista assoluto dell’arte astratta del Novecento: Piet Mondrian.
Scrive nelle sue memorie Balthasar Kłossowski de Rola, un pittore francese conosciuto più comunemente come Balthus:
Ho conosciuto benissimo Mondrian e rimpiango tutto ciò che faceva un tempo, degli alberi bellissimi, ad esempio. Guardava la natura, sapeva dipingerla. E poi un giorno è caduto nell’astrazione. Ero andato a trovarlo con Giacometti, la sera di una bellissima giornata, quando la luce comincia appena a declinare. Alberto e io abbiamo guardato la magnificenza che passava davanti alla finestra. Le variazioni della luce crepuscolare. Mondrian ha chiuso le tende dicendo che non voleva più vedere una cosa del genere.

Questo episodio, che presenta un comportamento assai strano, dice con efficacia della forza con cui Mondrian ad un certo punto della sua riflessione rifiutasse gli stimoli che arrivavano dalla percezione diretta della realtà. Leggendo questo aneddoto alla luce di alcuni suoi scritti ci rendiamo conto come nella sua ricerca intellettuale avesse l’esigenza di comprendere la struttura della realtà esterna nella sua essenza e come considerasse il dato percettivo fuorviante. Sembra che chiudendo quella tenda si fosse messo in dialogo ideale con quel Brunelleschi posto sulla soglia del Duomo di Firenze per dirgli: stai sbagliando tutto! Ciò che hai dipinto nella tua tavoletta non c’entra nulla con la realtà che hai davanti. Non ti fidare di ciò che vedi.

Scrive il pittore olandese in un suo articolo pubblicato nel 1918 nella rivista “De Stijl” sotto il titolo “Dal naturale all’astratto, ovvero dall’indeterminato al determinato (I parte)”:
In natura gli accidenti della sostanza, grandezza, forma proprietà, non possono venir meno, poiché la sostanza non è percepibile direttamente attraverso i sensi. In natura la forma (corporeità) è necessaria: in natura tutto si presenta a noi attraverso la forma, che si esprime per mezzo del colore (naturale). Così la natura ci confonde, illudendoci che anche in arte la forma sia necessaria: la natura ci fa dimenticare che la sostanza trova espressione attraverso l’universale.
Appare evidente in questo estratto che per Mondrian ciò che i sensi ci raccontano della realtà non ci dice nulla della sua sostanza, ovvero nulla della sua essenza, della sua struttura profonda: è un mero accidente. La natura così come la percepiamo ci confonde. Dobbiamo cogliere l’universale.
Il concetto di universale per Mondrian è straordinariamente importante. Cerchiamo di comprendere a pieno cosa intende quando usa questo termine considerando che utilizza spesso un fraseggio al quanto contorto ed un tono che tende in alcuni casi al misticismo, per cui non è sempre semplice cogliere l’esatto significato di ciò che vuole dire. Iniziamo da una sua definizione piuttosto concisa che compare nel suo manifesto artistico del 1920 “Il Neoplasticismo”:
L’universale […] è ciò che è, e sempre permane: per noi è ciò che è più o meno inconscio, in opposizione a ciò che è più o meno consapevole: l’individuale, che si ripete e si rinnova.
Lasciamo da parte per un istante il rapporto fra universale, mente e coscienza e concentriamoci sulla prima parte della definizione. L’universale è ciò che sempre permane. Permanere è un concetto dall’aria vagamente metafisica, non a caso è preceduto dalla locuzione “è ciò che è” dal sapore francamente parmenideo. Tuttavia poco dopo aggiunge:
Tutte le arti si sforzano di pervenire all’espressione plastico-estetica del rapporto esistente fra l’individuale e l’universale, fra soggettivo e l’oggettivo, fra la natura e lo spirito.
Non sfugge ancora che usi la parola “spirito”, termine con connotazione decisamente mistica, tuttavia in questa ultima definizione individuiamo due insiemi contrapposti ognuno dei quali racchiude al suo interno concetti tra loro correlati nel pensiero mondrianeo: individuale-soggettivo-naturale e universale-oggettivo-spirituale. Si deduce che l’universale è tutto ciò che è oggettivo (e si coglie con lo spirito) ed è contrapposto all’individuale che è tutto ciò che è soggettivo e che rientra nel campo naturale. Quindi possiamo tutto sommato dire che per il pittore olandese, universale può anche essere definito come tutto quello che può essere compreso e predicato di oggettivo della realtà fuori da noi.
Scrive ancora nel suo saggio:
Una palla è un mondo in sé e un mondo fuori di sé: la nostra personalità ne vede solo una parte. Essa ne vede solo la parte che perviene alla sua coscienza, quale risulta dalla nostra vita esterna. Così la palla diventa la rappresentazione del nostro pensiero soggettivo in funzione di essa.
Con un linguaggio piuttosto fumoso, al quale spero, ci stiamo abituando, afferma un concetto che potrebbe essere così interpretato: una palla – ovvero ogni oggetto del mondo esterno – può essere analizzata sotto due punti di vista, quella che è (è un mondo in sé) e quella che ci appare (è un modo fuori di sé). Questo concetto ricorda molto da vicino la distinzione Kantiana di noumeno e fenomeno. La nostra personalità, ovvero noi attraverso la nostra mente abbiamo accesso solo al fenomeno, che è “solo la parte che perviene alla nostra coscienza”. Ma questo non è nient’altro che l’aspetto che risulta dalla nostra vita esterna, che qui sta per esteriore e quindi superficiale, che non riesce a cogliere l’essenza delle cose. In altre parole potremmo dire che abbiamo accesso cosciente solo a come ci appare la palla. Ma questo è un qualcosa di soggettivo e quindi mera opinione e non conoscenza.
Sicuramente nella riflessione di Mondrian c’è anche un tentativo di individuare il processo mentale che mette in relazione percezione, coscienza e soggettività. Utilizza più che altro un metodo abduttivo, lascia all’intuito la possibilità di indagare l’ignoto. Possiamo scorgere nel suo sforzo speculativo, anche un tentativo moderno di abbozzare un ragionamento analitico e si pone in una prospettiva che anticipa di decenni l’indagine psicologica e soprattutto neuroscientifica.
Analizziamo ora quello che poche righe sopra avevamo lasciato da parte:
L’universale […] per noi è ciò che è più o meno inconscio, in opposizione a ciò che è più o meno consapevole: l’individuale, che si ripete e si rinnova.
Per Piet Mondrian la realtà universale, vera, gli aspetti oggettivi di essa, che sono colti da tutti allo stesso modo e non sono legati all’unicità del soggetto, sono accessibili solo alla parte inconscia della nostra mente. E non si accontenta, traccia un generale modello di processo mentale di come la realtà giunge alla nostra coscienza. Con i dati a sua disposizione non poteva fare più di così.
Mentre l’universale che è in noi diventa sempre più cosciente, mentre l’indeterminato tende sempre più verso il determinato, le cose fuori di noi conservano la loro forma indeterminata. Di qui ha origine la necessità, con il progressivo trasformarsi dell’inconscio (l’universale che è in noi) in cosciente, di trasformare parallelamente, di determinare nel modo più adeguato l’aspetto capriccioso e indeterminato del fenomeno naturale.
In questo passaggio tratto ancora da “Il Neoplasticismo” accenna ad un progressivo processo di affioramento alla coscienza. Sembra voler dire: la realtà esterna è inaccessibile, non possiamo conoscere il noumeno. Per questo “le cose fuori di noi conservano la loro forma indeterminata”. Tuttavia quando vi accediamo attraverso la nostra osservazione, attiviamo prima processi mentali inconsci dei quali non abbiamo né contezza né controllo e poi ne attiviamo altri che fanno gradualmente affiorare la percezione. È un “progressivo trasformarsi dell’inconscio in cosciente”. E dato questo processo, Mondrian suppone, sulla base della pura intuizione, che nei processi inconsci processiamo la realtà tutti allo stesso modo così da coglierne aspetti che, proprio in virtù dell’universale modo di processarli (l’universale che è in noi), saranno ciò che di universale e quindi oggettivo cogliamo della realtà. Successivamente gli aspetti oggettivi ed universali vengono processati con modalità diverse da soggetto a soggetto e proprio questi processi portano alla percezione di una realtà che sarà determinata per chi la percepisce, ma diversa per ognuno, proprio in virtù dei diversi modi di processarla. All’uomo che ha compreso questi processi nasce una necessità: “determinare nel modo più adeguato”, cioè più vicino possibile al vero, “l’aspetto capriccioso e indeterminato del fenomeno naturale”. Potremmo dire che Mondrian si pone qui il problema epistemico.

In un articolo pubblicato nel 1918 in “De Stijl” il ragionamento sulla percezione si fa più dettagliato e compare un tentativo di metodo per far fronte alla necessità gnoseologica appena espressa:
Il temperamento artistico riesce in una continua elaborazione della manifestazione visiva e dunque in un progressivo avvicinamento alla verità. L’artista plastico realizza la percezione visiva: egli la distrugge di continuo e di continuo realizza in modo sempre più puro la verità.
Si può giungere alla verità solo distruggendo di continuo la percezione visiva. Ecco qui dichiarato il motivo per cui nell’episodio raccontato da Balthus, chiude in modo intransigente la tenda della finestra di casa sua. E dopo aver distrutto la percezione, è necessario elaborare il mondo che si manifesta all’osservatore in un modo nuovo, per permettere di raggiungere ciò che è vero per tutti, ciò che è oggettivo, combattendo l’individuale, ovvero il soggettivo.
Parlando della verità in un altro articolo di “De Stijl” afferma:
Forma e colori naturali la legano plasticamente all’individuale, ostacolano la visione pura dell’universale. I nostri sentimenti e pensieri (basati su esperienze particolari) sono inoltre associati a ciò che vediamo. Sebbene l’osservatore decida in parte l’impressione di ciò che vede, è tuttavia anche ciò che viene visto, attraverso la forma in cui appare, a comunicarci qualcosa di determinato. Persino le forme più perfette, più generali, geometriche, esprimono qualcosa di determinato. Rimuovere più possibile questa determinatezza (l’individuale) è il ruolo dell’arte e ciò in cui consiste ogni espressione stilistica. Il terreno dell’arte è dunque il campo della lotta all’individuale.
Rimuovere il più possibile l’individuale, il soggettivo, permette di non avvertire i sentimenti ed i pensieri individuali, attenua l’effetto che fa, e facilita la visione pura dell’universale, quella oggettiva.
In molti casi nella sua produzione si scaglia contro il tragico, ovvero i sentimenti umani.
Sempre nel manifesto “Il Neoplasticismo” dichiara:
Lo squilibrio fra l’individuale e l’universale crea il tragico e si esprime in una plastica tragica. In ciò che è domina, sia nella forma che nella corporeità, il naturale: da questa situazione scaturisce il tragico.
E ancora:
In generale non ci si rende conto del fatto che lo squilibrio è una maledizione per l’umanità e si continua a coltivare ardentemente il sentimento del tragico.
Sempre in “De Staijl” scrive a cosa deve portare il percorso da lui individuato:
Si verifica nell’uomo una grande ascesa (evoluzione), in altre parole una crescita della consapevolezza, un ampliamento della coscienza. Il soggettivo resta tuttavia tale, nonostante perda soggettività man mano che l’oggettivo (universale) si sviluppa nell’individuo. Una volta compiuto il grande salto (pensate alla mutazione) dal soggettivo all’obiettivo, dall’individuale all’universale, il soggettivo cessa di esistere.
Da tempo il messaggio velato della sapienza ha lasciato il posto alla sapienza della ragion pura. Questa scienza mostra di volta in volta una maggiore esattezza. […] Vediamo come in ogni manifestazione della vita venga espresso un unico concetto: tale concetto si formula nel pensiero logico. […] In questa verità viene indicato che il visibile, il naturalmente concreto, non viene conosciuto attraverso il visibile (natura), bensì attraverso il suo opposto. L’espressione della realtà visibile può dunque parlare alla coscienza del proprio tempo solo attraverso la plastica astratto-reale.
Annullare il soggettivo in favore dell’oggettivo, questo l’intento assai chiaro di Mondrian. Dunque seguendo il metodo di Mondrian per cogliere l’oggettivo si deve ridurre al minimo il contributo dei sensi (la percezione visiva in primis) e la confusione che arrecano i sentimenti per approdare ad una astrazione che si avvale solo del pensiero puro, della pura logica. Tutto questo lo mette in pratica nella sua arte che consiste in una attenta operazione di asciugatura delle informazioni fuorvianti, di isolamento degli elementi essenziali. Si priva della forma riconoscibile per cercare l’equilibrio e l’assenza del tragico. È in tale modo che riduce al minimo l’effetto dei sensi e dei sentimenti, e avvalendosi dell’astrazione evita l’etichettatura, ovvero impedisce alla memoria di trovare un correlato alla forma presentata nell’opera, sapendo che anche i ricordi sono legati a sentimenti e confondono, perché vincolano ad un significato, riducendo il libero contributo della pura ragione. Se consideriamo gli elementi che caratterizzano l’esperienza presentati all’inizio di questo lavoro, per Mondrian dobbiamo eliminare sostanzialmente gran parte di ciò che caratterizza la struttura esperienziale. In altre parole per cogliere l’essenza della realtà esterna secondo il pittore olandese è necessario selezionare ed isolare il pensiero puro, o, per usare un suo termine, alimentare lo “spirito” e non la vivida esperienza interiore. In questo sembra cogliere l’invito che decenni dopo fa Daniel Dennett: abbandonare l’autofenomenologia.




LA PAROLA ALLA SCIENZA
Quello che Mondrian ha delineato sulla base della speculazione intuitiva è stato studiato ampiamente dalla scienza. Il primo scienziato moderno ad indagare la fisiologia della visione fu il fisico, fisiologo e medico tedesco Hermann Von Helmholtz addirittura nella seconda metà dell’Ottocento. Si rese conto che le informazioni che giungono dalla retina non possono rendere conto di tutta la percezione visiva, sono assai più limitate, per cui concluse che la percezione dovesse in qualche modo essere il risultato di un processo neurobiologico costituito da ipotesi e controllo di ipotesi fatto a partire dalle esperienze passate. Questa teoria è stata sposata da molti altri, per ultimo uno dei massimi ricercatori nel campo della scienza della coscienza, Anil Seth, che ritiene che “l’esperienza percettiva nella sua interezza è una fantasia neuronale che resta unita al mondo facendo e rifacendo di continuo le migliori ipotesi percettive, che altro non sono che allucinazioni controllate”. E chiosa: “Si potrebbe persino dire che alluciniamo sempre. È solo quando siamo d’accordo sulle nostre allucinazioni che parliamo di realtà”.

Come ricostruisce magistralmente Eric Kandel nell’imprescindibile saggio “L’età dell’inconscio”, il neurobiologo britannico David Marr, ha studiato la visione e tra i vari aspetti anche il modo in cui il cervello decostruisce la forma. Fu il primo a proporre che la percezione visiva procede gradualmente attraverso una serie progressiva di processi di elaborazione delle informazioni, che portano a rappresentazioni. Ogni passo trasforma e arricchisce il precedente.

Sulla scorta degli studi seminali di Marr, i neuroscienziati contemporanei hanno messo a punto un modello di elaborazione dell’informazione visiva in tre stadi. Il primo, che prende il nome di “elaborazione visiva di basso livello”, è stato definito in modo dettagliato dagli studi di Kuffler. Inizia nella retina, e stabilisce alcune caratteristiche di base come la posizione di un oggetto nello spazio e il colore. L’“elaborazione visiva di livello intermedio”, ovvero il secondo stadio, è stato chiarito nei suoi meccanismi soprattutto dagli studi di Hubel, Wiesel e Zeki. Inizia nella corteccia visiva primaria ed è caratterizzato dall’assemblaggio di semplici segmenti lineari, ciascuno con uno specifico asse di orientazione. Tale processo, detto integrazione del contorno, permette l’individuazione dei contorni che definiscono i confini di un’immagine, e determina la percezione unitaria della forma di un oggetto. A questo stadio appartiene anche un’altra importante operazione: la separazione dell’oggetto dallo sfondo in un processo chiamato segmentazione della superficie. Nel loro insieme, l’elaborazione di basso livello e di livello intermedio permettono di discriminare le figure, ovvero le aree dell’immagine di partenza che sono collegate a un oggetto, e lo sfondo cioè le aree della scena visiva che non lo sono. I processi visivi appena descritti sono ovviamente inconsci e costituiscono l’elaborazione delle informazioni che procedono dalle aree neurobiologiche inferiori verso quelle via via superiori, per questo in gergo tecnico viene definita “elaborazione bottom-up”. Il terzo stadio, che costituisce l’elaborazione visiva di alto livello, percorre la via dalla corteccia visiva primaria fino a giungere alla corteccia temporale inferiore. Questo processo è cruciale per stabilire categorie e significati. È uno stadio assai complesso, in questa fase il cervello integra l’informazione visiva con molte altre informazioni, provenienti da svariate aree cerebrali superiori, e ci permette di riconoscere oggetti specifici, volti e scene. Questo tipo di elaborazione, proprio perché procede da aree cerebrali superiori verso aree più basse, viene definito “elaborazione top-down”. Il primo ad usare questo termine fu Helmhotz, e lo descrisse sinteticamente “inferenza inconscia”, in quanto caratterizzata dalla produzione di inferenze e dal controllo delle ipotesi sulla base delle esperienze visive precedenti. Tali processi inconsci portano in fine alla percezione visiva consapevole e all’interpretazione del significato, il quale, per altro non è scevro da errori.

Assai interessanti risultano alcuni esperimenti eseguiti addirittura nel 1959 da David Hubel e Torsten Wiesel e confermati dal gruppo di Semir Zeki sull’elaborazione neuronale delle forme, operazione appartenente al secondo stadio della visione. Esistono nella corteccia visiva primaria, ed in particolare nell’area che viene chiamata V1, un gran numero di neuroni che rispondono selettivamente al particolare orientamento delle linee. Questa è una delle prime operazioni che portano alla definizione della forma di un oggetto. Spiega Zeki: “i fisiologi pensano che le cellule di questo tipo siano i mattoni con cui viene costruita l’elaborazione neurale delle forme, sebbene nessuno di noi sappia come delle forme complesse siano costruite neurologicamente da cellule che reagiscono a ciò che noi consideriamo i componenti di ogni forma”. Ed aggiunge a commento di questa acquisizione scientifica una frase molto significativa già accennata in questa piattaforma nell’articolo di Danilo Petri Terza cultura 3 – Arte visiva e conoscenza: un’esposizione e che qui riporto integralmente: “In un certo senso la nostra indagine e le nostre conclusioni non sono dissimili da quelle di Mondrian, Malevič e altri. Mondrian pensava che la forma universale, la base di tutte le altre forme più complesse, fosse la linea retta; i fisiologi pensano che le cellule che reagiscono specificamente a quella che alcuni artisti considerano la forma universale costituiscano i mattoni di partenza che permettono al sistema nervoso di rappresentare forme più complesse. Trovo difficile credere che la relazione tra la fisiologia della corteccia visiva e le creazioni degli artisti risulti interamente fortuita”.
Le indagini scientifiche di Zeki non si sono limitate al secondo stadio della percezione visiva, hanno esplorato anche i meccanismi propri dell’elaborazione top-down. È stato poco sopra illustrato come l’elaborazione al primo ed al secondo stadio portano a distinguere la figura dallo sfondo. Zeki e i suoi collaboratori hanno utilizzato l’immagine del vaso di Rubin per tentare di comprendere i meccanismi che determinano il passaggio dai processi inconsci alla visione cosciente.

Questa immagine è assai utile allo scopo perché è caratterizzata da una particolare ambiguità: se l’osservatore individua la figura centrale bianca come oggetto e la restante parte nera come sfondo vedrà un vaso bianco che si staglia su uno sfondo nero, se al contrario individua le due superfici nere laterali come oggetto e la parte centrale bianca come sfondo vedrà due volti neri colti di profilo che si fronteggiano su uno sfondo bianco. I ricercatori hanno osservato attraverso la risonanza magnetica funzionale cosa accade al cervello quando compie l’inversione figura-sfondo, e hanno dimostrato che nel primo caso si attiva l’area della corteccia responsabile del riconoscimento degli oggetti (il vaso infatti è un oggetto) e nel secondo la porzione della corteccia responsabile del riconoscimento dei volti. Non solo, hanno osservato che per ottenere l’inversione figura-sfondo è necessario per il cervello arrestare prima l’attività neuronale nella prima area per poi attivare l’altra area. Infine hanno anche evidenziato che quando ciò che è percepito passa da un’immagine all’altra, si attiva la corteccia fronto-parietale. In assenza del contributo di questa parte della corteccia l’osservatore non sarà consapevole del passaggio. Dato che lo stimolo percettivo non varia hanno interpretato i cambiamenti documentati come la traccia neurofunzionale di alcuni di quei meccanismi di inferenza e controllo delle ipotesi che appartengono all’elaborazione top-down dell’immagine visiva, ed il contributo della corteccia fronto-parietale come uno dei processi essenziali per il passaggio dalla elaborazione inconscia a quella cosciente.
Ciò che percepiamo coscientemente è di fatto il risultato della nostra capacità di trovare un significato coerente ai segnali in entrata. Il significato che attribuiamo, quello che Set definisce la nostra “fantasia neuronale” è il punto d’arrivo del processo di interpretazione che si esplica attraverso il confrontano dell’informazione visiva in arrivo, con le esperienze precedenti recuperate dalla memoria. La memoria a cui si fa appello in questo caso è la memoria implicita che si esplica nel richiamo inconscio delle abilità motorie e percettive e dei risvolti emotivi, e richiede il coinvolgimento dell’amigdala, dello striato e, nei casi più semplici, delle vie del riflesso. In parte molto minore viene coinvolta un altro tipo di memoria, quella esplicita, ed in particolare quella episodica. In buona sostanza le strutture neuronali nelle quali sono immagazzinate le informazioni ci sono necessarie per interpretare e classificare. Scrive Kandel con il suo straordinario dono di una sintesi che scolpisce verità scientifiche: “tutta la percezione visiva si basa sulla classificazione concettuale e sull’interpretazione delle informazioni visive; non si può percepire ciò che non si può classificare”.
Vale la pena approfondire alcuni aspetti del primo tipo di memoria, quella implicita. È una forma di memoria ancestrale che Giorgio Vallortigara definisce memoria profonda. Scrive: “In questa memoria profonda, che ha i tempi lunghi della storia naturale e non quelli brevi dello sviluppo individuale, risiede l’origine dell’informazione, della sapienza che gli organismi posseggono come equipaggiamento di base”. È quella memoria che permette a molti animali, e non solo all’uomo, di muoversi nel mondo, classificarlo e concepirlo, anche dal punto di vista percettivo, come abbiamo appena visto. Permette di possedere le informazioni di base quali il senso del numero, un elementare senso euclideo della geometria, la conoscenza di alcune regolarità statistiche generali del mondo come il fatto che la luce viene dall’alto, o il fatto che i corpi sono impenetrabili, tutti elementi che permettono a molti animali, compresi i pulcini studiati da Vallortigara, di possedere concetti generali che in filosofia prendono il nome di universali.

Preso atto di quello che la scienza ha compreso rispetto alla fisiologia della visione e alla percezione, sembra utile riassumere la copiosa quantità di dettagli appena esposti facendo per l’ultima volta appello alla chiarezza e all’efficacia del Professor Kandel, che nel già citato saggio “L’età dell’ inconscio” scrive riferendosi all’osservazione di un’opera d’arte: “L’informazione elaborata dal basso si basa in buona parte sull’architettura cablata dei primi stadi del sistema visivo, che è fondamentalmente la stessa per tutti gli osservatori di un’opera d’arte. Al contrario, l’elaborazione top-down si basa su meccanismi che assegnano categorie e significati e sulla conoscenza precedente, che viene conservata come memoria in altre regioni del cervello. Di conseguenza, l’elaborazione top-down è unica per ciascun osservatore”. Non è forse esattamente quello che aveva intuito, in modo del tutto generale e grezzo Mondrian nelle sue elucubrazioni? L’elaborazione bottom-up rappresenta quell’insieme di meccanismi inconsci che il pittore olandese definiva “l’Universale che è in noi” e che Kandel riconosce essere “la stessa per tutti gli osservatori”. L’elaborazione top-down costituisce il processo che porta progressivamente dall’inconscio al cosciente e che introduce l’elaborazione individuale, “unica per ogni osservatore”, e quindi soggettiva. La percezione cosciente rappresenta la manifestazione finale di tale processo soggettivo, che portò Mondrian a rifiutare di guardare, a questo punto con qualche ragione corroborata dalla ricerca scientifica, il paesaggio che si apprezzava dalla finestra della sua stanza.
CONCLUSIONI

Ma per quanto la scienza a posteriori abbia dato ragione al maestro olandese su molte delle sue intuizioni, è Mondrian stesso che si rende conto del limite della sua radicale posizione. Nel luglio del 1918 pubblica in un articolo intitolato “Dal naturale all’astratto, ovvero dall’indeterminato al determinato (II parte)” nella già ampiamente citata rivista “De Stijl”, un suo pensiero che non lascia dubbi interpretativi. Ammette a sé stesso e ai suoi lettori:
Attraverso l’unità di interiorità ed esteriorità l’artista resta pur sempre uomo, e non può dunque porsi interiormente al di sopra del soggettivo.
In qualche modo riconosce che il suo metodo e il suo percorso artistico non possono liberarlo dall’esperienza del mondo in prima persona, non può porsi al di sopra di questo punto di vista perché lo vive da dentro di sé, è interiore. Sempre nello stesso articolo spiega la sua scelta di utilizzare linee e colori primari:
Solo quando la tensione della linea sarà risolta nella linearità e l’intensità del colore naturale si sarà approfondito nel puro colore piano, sarà possibile ridurre a un minimo l’espressione del tragico.
Queste righe nascono indubbiamente dall’analisi attenta della realtà fatta dall’autore e dalla sua volontà, basata sul ragionamento logico, di scomporre la forma ed il colore nei suoi componenti primi. Anche il concetto di equilibrio tanto caro a Mondrian è frutto di rapporti geometrici meticolosamente calcolati. Potremmo forse azzardare dicendo che in questo suo modo di fare arte, raccoglie l’invito di Kandinskij quando parla di “espressione numerica” e “possibilità di misurazione”. Tuttavia nascondono probabilmente anche un altro aspetto: che per quanti tentativi di distillare il puro pensiero possa fare, per quanto possa intraprendere la via dell’astrazione, non c’è possibilità, come ammesso poche righe sopra, di uscire da sé, e per quanto tenti di ridurre al minimo l’influenza dei propri sentimenti e delle proprie sensazioni, ci sarà sempre un qualche effetto provato. Non è possibile assumere un punto di osservazione della realtà completamente fuori da sé. Così l’assenza di curve sarà il risultato della riduzione della forma più complessa a forme fondamentali, e la scelta di non utilizzare colori composti sarà la conseguenza della riduzione del cromatismo agli elementi primi, ma comunque vada anche quelle linee e quei colori fondamentali faranno un effetto. Sarà, per usare le stesse parole di Mondrian ridotta “a un minimo l’espressione del tragico” ma non eliminabile del tutto. Al lettore attento non sfuggirà che questo è né più e né meno “l’effetto che fa” all’artista la visione di linee ortogonali e colori primari, e che quindi utilizzarle sia in fin dei conti la sua “necessità interiore”.
Questo è ancor più evidente in una sua dichiarazione riportata da J.J. Sweeney nel 1946 in “The Museum of Modern Art Bulletin”:
C’era nelle mie opere del 1919 e 1920, dove la tela era coperta di rettangoli accostati, una equivalenza di orizzontali e verticali. L’esito complessivo era più universale che nei quadri in cui predominavano le linee verticali, ma era ancora vago. Verticali e orizzontali si annullavano a vicenda; il risultato era confuso, la struttura si perdeva.
“L’esito complessivo era più universale”, “ma era ancora vago”, “il risultato era confuso”. Che cos’è questa se non una descrizione in prima persona, autofenomenologica, della sua opera? Come ulteriore elemento di riflessione si deve ricordare che la stessa rivista “De Stijl” viene abbandonata da Mondrian per un dissidio con l’altro fondatore Theo Van Doesburg per l’impiego che quest’ultimo faceva nelle sue opere delle diagonali. Mondrian elimina dalla sua arte curve e diagonali perché il risultato della combinazione di elementi primari lineari, sono linee composte non ridotte all’elemento essenziale. Ma questo motivo puramente logico appare accompagnato da un sentimento, da un effetto interiore. Di questo sentimento che sembra tutt’altro che lontano dal “tragico” trasuda il messaggio con cui chiude i suoi rapporti lavorativi con Van Doesburg: “Per il modo arrogante in cui ha usato la diagonale, ogni ulteriore collaborazione tra di noi è diventata impossibile. Quanto al resto, sans rancune”.

Pare che l’ammissione del fatto che l’artista, in quanto uomo, non si possa liberare del proprio punto di vista in prima persona sia veramente sincera, e per altro, ineluttabile!
Le parole del noto psicologo cognitivo Chris Frith sembrano in questo senso non lasciare scampo: “Non abbiamo una connessione diretta con il mondo fisico. Possiamo avere la sensazione di un accesso diretto, ma si tratta di un’illusione creata dal nostro cervello”. Per quanto Mondrian si sia potuto sforzare di giungere ad una visione del mondo in terza persona ha dovuto arrendersi al fatto che avesse solo accesso alla sua personale esperienza del mondo fisico, e questo è vero per chiunque. E fare esperienza del mondo com’è “veramente là fuori” è una proiezione vivida e coinvolgente piuttosto che un resoconto o una registrazione asettica della realtà oggettiva. È uno stato dell’essere nel quale coesistono in modo integrato ed inseparabile molti aspetti come abbiamo visto all’inizio di questo lavoro: percezioni, sentimenti, ricordi ed altro ancora. Eliminare anche uno degli elementi rende lo stato diverso. Tentare di ridurre uno o molti di questi aspetti, o addirittura tentare di isolarne uno porterà all’analisi di qualcosa che non potrà affatto rendere conto dell’intera esperienza vissuta. Per questo il tentativo di Mondrian non può arrivare all’essenza della realtà: perché l’essenza della realtà non è direttamente e completamente accessibile, e perché l’esperienza, che è il mezzo attraverso il quale entriamo in contatto con la realtà non è né scomponibile senza perdere qualcosa di essenziale di quello che esperiamo, né oggettiva.
L’analisi in terza persona è la comprensione ed il resoconto di processi che partono da uno stimolo in entrata, operano una elaborazione e determinano una risposta che spesso si traduce in un qualche comportamento. Ma questo è assai diverso dallo studio di una esperienza vissuta, che è tutto quello che abbiamo a nostra disposizione per entrare in contatto con la realtà fuori da noi. Ed allora cosa ci resta di fare? Tenerci al momento care tutte e due le prospettive. Quella in prima persona, sapendo che non possiamo astrarci totalmente da questa, e sapendo purtroppo anche che non riusciamo completamente a comunicarla agli altri, perché non possediamo il linguaggio adatto a descriverla nella sua essenza irriducibilmente soggettiva e personale. E la prospettiva in terza persona che rende conto di processi fisici che riguardano e permettono l’esperienza, come la percezione visiva, tutti gli altri tipi di percezione, i processi cognitivi, e mnemonici ma che non ci consente di accedere allo studio dell’esperienza nel suo complesso almeno fino a che non avremo una spiegazione oggettiva di come dal cervello si passi alla mente, di come dalla biologia e dalla fisica dei neuroni si passi all’esperienza vissuta.
Allo stato attuale teniamo ben in considerazione la scienza che ci spiega come avvengono i processi e l’arte figurativa, la letteratura, il teatro, il cinema, la fotografia, la musica, la contemplazione della natura che ci fanno sentire che siamo vivi e che siamo immersi in un mondo fuori da noi in un modo tutto e solo nostro.
Letture:
- Christof Koch – Sentirsi vivi – Raffaello Cortina, 2021
- Anil Seth – Come il cervello crea la nostra coscienza – Raffaello Cortina, 2023
- Shauan Gallagher, Dan Zahavi – La mente fenomenologica – Raffaello Cortina, 2022
- Vasilij Kandinskij – Lo spirituale nell’arte – SE, 2005
- Vasilij Kandinskij – Il problema delle forme – Abscondita, 2024
- Vasilij Kandinskij – Punto, linea e superficie – Adelphi, 2021
- Daniel Dennett – Dai batteri a Bach – Raffaello Cortina, 2018
- Piet Mondrian – Il neoplasticismo – Abscondita, 2021
- Piet Mondrian – Scritti teorici – Libri Scheiwiller, 2021
- Giorgio Vallortigara – Il pulcino di Kant – Adelphi, 2023
- Eric Kandel – L’età dell’inconscio – Raffaello Cortina, 2016
- Semir Zeky – La visione dall’interno – Bollati Boringhieri, 2007
