L’ontologia della conoscenza ordinaria (3) – Realismo percettivo

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L’ontologia della conoscenza ordinaria (3) – Realismo percettivo
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Paolo Piccari è Professore Associato presso l’Università degli studi di Siena. Svolge la sua attività didattica nella sede di Arezzo occupandosi anche di filosofia del linguaggio e filosofia della mente. Proponiamo di seguito una sua pubblicazione accademica riguardante “la conoscenza ordinaria” che dividiamo in tre articoli per agevolare la lettura.

Pubblicato in Giornale di Metafisica, n.s., XXXV, 2013, pp. 355-371

È indubbio che, dal punto di vista microfisico, le sedie su cui ora siamo seduti non siano oggetti solidi, cioè non siano oggetti prevalentemente costituiti di materia allo stato solido i cui confini spaziali ben definiti sono percepiti attraverso i nostri organi sensoriali. Tuttavia le sedie “entrano” nella nostra vita come oggetti che si esperiscono e di cui ci si serve: ciò fa parte del modo di essere attuale delle sedie, e non può essere confutato da alcuna teoria fisica, le cui conoscenze specifiche non rilevano alcunché rispetto al modo in cui le sedie si presentano alla conoscenza ordinaria. In tale prospettiva, appare problematica la tesi di Sellars secondo cui la concezione degli oggetti materiali ordinari (la cosiddetta immagine manifesta) è semplicemente falsa, anche se non priva di qualche valore cognitivo.

L’immagine scientifica della sedia smentirebbe la sua immagine manifesta solo nel caso in cui quest’ultima fosse assunta come una rappresentazione esaustiva della sedia, mentre evidentemente essa non lo è, così come non lo è nemmeno la sua immagine scientifica: le due immagini possono naturalmente coesistere e, al massimo «potrà essere un problema scientifico interessante (ed arduo come ben si sa) quello di mostrare come le proprietà microfisiche dei corpi possano ‘dar luogo’ alle loro proprietà macrofisiche».

La tesi secondo cui esiste un solo mondo con cui la conoscenza ordinaria derivante dall’attività percettiva è in relazione costituisce il fondamento di ciò che si è soliti indicare come realismo del senso comune, ma che sarebbe preferibile (in considerazione della plurivocità semantica dell’espressione ‘senso comune’) definire realismo percettivo. Tale concezione consiste nel ritenere, in primo luogo, che nelle nostre attività cognitive quotidiane abbiamo una relazione diretta con il mondo fenomenico; poi che tali attività si basano su un determinato nucleo di credenze legate tra loro – il cosiddetto “senso comune” – che è in larga parte adeguato al mondo fenomenico, se non altro perché tali credenze, come pure le nostre capacità cognitive, sono sorte attraverso l’interazione con questo mondo; infine, che il mondo fenomenico esiste autonomamente, cioè indipendentemente dalle nostre rappresentazioni ad esso riferite. In ogni caso, il senso comune inteso come fisica naïve, psicologia folk, biologia e ontologia popolari non è, contrariamente a quanto si pensa, ingenuo: esso, infatti, è in grado di distinguere tra realtà e apparenza o, in altri termini, tra il modo in cui il mondo è e il modo in cui esso appare attraverso diverse modalità sensoriali e secondo le differenti prospettive dei soggetti percipienti all’interno di differenti contesti. Pertanto la tesi secondo cui esiste soltanto un mondo con il quale la conoscenza ordinaria è in relazione non è incompatibile con la tesi secondo cui vi sono vari modi in cui questo mondo può apparire ai soggetti in molteplici circostanze.

Alla base del realismo percettivo c’è la nozione di isomorfismo, in virtù della quale è possibile sostenere che le rappresentazioni mentali, che “stanno nella mente al posto” degli oggetti fenomenici, sono attendibili e adeguate rispetto al mondo fenomenico e tali da impedire generalmente errori quando si agisce secondo informazioni rappresentazionali1. Tali rappresentazioni possono essere modificate, entrare a far parte di diversi processi neuromentali ed essere soggette a ulteriori elaborazioni come, per esempio, il loro recupero consapevole in una data istanza, nonché stabilire differenti relazioni con il mondo che è stato rappresentato. Grazie alle rappresentazioni la mente possiede una struttura del mondo in cui sono descritti gli oggetti e le loro relazioni: l’insieme delle rappresentazioni è un mondo fenomenico-codificato o ricostituito che si sostituisce nella mente al mondo esterno.

Le rappresentazioni mentali sono modalità funzionali dell’organizzazione della conoscenza del mondo mediante l’utilizzazione degli organi sensoriali. Esse costituiscono strutture descrittive degli oggetti corrispondenti e dunque sono sufficientemente attendibili e adeguate: non sono spiegazioni della natura degli oggetti, ma solo descrizioni che, riportando i loro caratteri identitivi, permettono di identificarli e distinguerli. Sebbene siano descrittive e non esplicative, le rappresentazioni mentali possono svolgere un ruolo predittivo che si manifesta nella formazione di generalizzazioni empiriche rappresentazionali mediante le quali si possono formulare inferenze relative a specifici oggetti o stati di cose. A tale riguardo, è opportuno precisare il significato che assumono i termini ‘attendibile’ e ‘adeguato’ in riferimento alla conoscenza del mondo fenomenico. Una conoscenza si definisce ‘attendibile’ se si ritiene che in una certa misura corrisponda alla struttura delle cose cui si riferisce nel momento della sua formulazione; si assegna, invece, a una conoscenza l’aggettivo ‘adeguata’ (con riferimento al rapporto tra la conoscenza e gli scopi che s’intende raggiungere), quando essa si rivela utile per raggiungere un determinato scopo.

Nonostante le singole rappresentazioni non abbiano un ruolo esplicativo, è tuttavia lecito ritenere che una sequenza di rappresentazioni (o una generalizzazione basata su diverse rappresentazioni riferibili a uno o più oggetti) possa svolgere tale ruolo, ma senza fornire una vera e propria spiegazione. Questo ruolo è svolto da un insieme di rappresentazioni correlate tra loro, che sono utilizzate per spiegare lo svolgersi di un evento percepito. Non si tratta quindi di vere e proprie spiegazioni in senso epistemologico, bensì di sequenze rappresentazionali che possono svolgere un ruolo esplicativo.

Quale ontologia?

Alla conoscenza ordinaria corrisponde una specifica ontologia. Con l’espressione ontologia della conoscenza ordinaria intendo riferirmi a un’ontologia che riguarda lo sterminato elenco delle entità di cui sarebbe disseminato il mondo fenomenico. Per una simile ontologia sono rilevanti domande del tipo: che cosa esiste al mondo? Quali sono i “pezzi” che costituiscono il nostro mondo? Per rispondere a tali quesiti si può preliminarmente fare ricorso al rasoio di Ockham: «Frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora». Bisogna però usare con molta cautela tale rasoio, affilato o meno che sia, per evitare di recidere tanto ciò che c’è quanto ciò che non c’è: il desiderio di regimentare la molteplicità del reale, la proteiforme complessità del mondo che si offre alla nostra percezione, può indurre talvolta a scelte ontologiche assai discutibili. Spinti dall’esigenza di considerare enti o eventi non identici come equivalenti, siamo continuamente impegnati nel classificare oggetti e accadimenti per delimitarli, circoscriverli, ordinarli: riduciamo a una classe due o più oggetti od eventi allo scopo di cogliere le ‘regolarità’, le ‘similarità’ e l’identità nelle differenze; di delimitare l’identico in situazioni diverse; di “marcare” le proprietà comuni che, in parte dipendenti dalle diverse “enciclopedie”, consentono di elaborare una rappresentazione “sensata” del mondo fenomenico. Inevitabili esigenze di carattere cognitivo e comunicativo, inoltre, ci impongono costantemente di rivedere, modificare, rimodulare, ridisegnare i limiti dei nostri concetti per consentire a uno stesso oggetto in funzione della sua forma, o del suo colore, o della sua sostanza, la possibilità di trovare una corretta collocazione all’interno di un determinato schema concettuale.

Se il compito precipuo dell’ontologia è quello di stendere una sorta di catalogo del mondo preciso ed esaustivo, è allora necessario stabilire quali sono le cose che di diritto sono da includere nel “catalogo” della conoscenza ordinaria; forse non è sufficiente costruire un catalogo limitandosi all’inclusione delle sole cose che rendono veri gli enunciati. Come ha sostenuto Quine, la formula semantica “Essere è essere il valore di una variabile” serve a scegliere non già tra ontologie contrastanti, ma «a controllare se una data asserzione o dottrina sia conforme a un criterio ontologico che la precede. Prendiamo in considerazione le variabili vincolate in connessione con l’ontologia non per sapere che cosa c’è, ma per sapere che cosa una data asserzione o dottrina, nostra o di qualcun altro, dice che ci sia». Si tratta evidentemente di un problema che concerne il linguaggio, ma che non ha alcuna attinenza con che cosa c’è.

Tuttavia non deve stupire che controversie ontologiche possano sfociare in controversie linguistiche: il fatto che si possa tradurre una questione in termini semantici non vuol dire che essa sia una questione linguistica. Per esempio, guardare “La Leggenda della vera Croce di Piero della Francesca” vuol dire utilizzare un nome che, quando è premesso alle parole “guarda La leggenda della vera Croce di Piero della Francesca”, forma un enunciato vero: certamente non c’è alcunché di linguistico nel fatto di guardare La leggenda della vera Croce di Piero della Francesca.

In ogni caso, vi è un modo in cui le cose sono, cioè non è vero che non ci sono fatti ma solo interpretazioni: possiamo considerare scelte concettuali differenti, ma ciò non fa venir meno il carattere oggettivo dei fatti che sono in ogni caso accessibili all’interno di un determinato schema concettuale; uno schema che non stabilisce come stanno le cose, ma quali tipi di cose vi sono e in che modo possono stare. Il mondo si divide, si articola, si scompone così come noi lo dividiamo, l’articoliamo, lo scomponiamo, classificandone gli oggetti che lo costituiscono; e se anche ritenessimo che il nostro modo di classificarne le parti sia quello più corretto, potremmo comunque immaginare sistemi alternativi di classificazione egualmente validi. Ne deriva che ciascuna descrizione vera del mondo sarà sempre tale all’interno dello schema concettuale e del vocabolario ad esso corrispondente scelti per descrivere il mondo, cosicché, per dirla con Putnam, «il numero degli oggetti in un mondo […] è relativo alla scelta di uno schema concettuale». Tuttavia, come si è già detto in precedenza, c’è comunque un modo in cui i nostri organi sensoriali organizzano la nostra esperienza riferita agli oggetti del mondo fenomenico, che pone precisi vincoli alla loro classificazione: «adottiamo […] lo schema concettuale più semplice in cui riusciamo ad adattare e sistemare i frammenti disordinati dell’esperienza grezza». Inoltre, vi sono modi determinati in cui il reale si dà alla nostra attività cognitiva, che limitano l’arbitrarietà dei processi di classificazione e pongono delle linee di resistenza del reale stesso per cui sarebbe molto difficile concepire un taglio che offrisse nello stesso tempo l’estremità del muso e della coda: l’essere, dunque, pone se non dei sensi obbligati, dei sensi vietati.

Se è lecito affermare che una descrizione può essere formulata solo con riferimento a uno schema concettuale, tuttavia non è possibile sostenere che gli oggetti/eventi descritti esistono solo relativamente a tale schema. La relatività concettuale è una possibile spiegazione del modo in cui stabiliamo l’applicazione dei nostri concetti: ciò che poi corrisponde a un’applicazione corretta del termine ‘veicolo’ o ‘cibo’ spetta alla comunità dei parlanti deciderlo ed è quindi arbitrario.

Il mondo cui si rivolge la conoscenza ordinaria è il mondo degli oggetti e degli eventi, nel quale ciascun essere umano è chiamato a muoversi, a orientarsi e ad agire: un mondo che esiste indipendentemente dalle nostre rappresentazioni di esso e che piuttosto presupponiamo a tutte le nostre azioni, nonostante taluni abbiano negato il fatto che esista un solo mondo cui riferire la conoscenza ordinaria, ritenendo che la diversità culturale abbia rilevanza in tale ambito, cosicché i membri di diverse culture vivrebbero in mondi differenti. Un mondo costituito di enti concreti e tangibili con cui entriamo in contatto quotidianamente perché esso cade sotto la sfera della nostra esperienza: il nostro corpo, la nostra scrivania, i nostri libri; enti come alberi, pietre, colonne, specchi la cui realtà appare del tutto evidente e immediata. Come osserva Varzi, se è ragionevole convenire sull’intuizione ontologica per cui queste cose esistono, è invece tema controverso stabilirne una precisa connotazione metafisica in ragione dei diversi orientamenti filosofici in proposito; in altri termini, trovare un accordo sul piano ontologico non comporta ipso facto anche un accordo sul piano metafisico: per esempio, si può essere d’accordo sull’esistenza di sedie in una stanza, ma dissentire sulla loro natura.

Il mondo della conoscenza ordinaria sovrabbonda di oggetti che permangono, che resistono al cambiamento, al progresso tecnologico e scientifico come, per esempio, il corredo di una tomba egizia o le colonne del tempio di Segesta; in secondo luogo, è un mondo pieno di oggetti di taglia media, né troppo grandi né troppo piccoli, né macroscopici né microscopici, “mesoscopici” appunto: è la prospettiva ecologica di James J. Gibson, ma anche del richiamo alla Lebenswelt, al mondo della vita; infine, le cose che “abitano” il mondo della conoscenza ordinaria sono indifferenti ai nostri schemi concettuali. Ciò significa che esiste un livello ontologico, quello cui si riferisce la conoscenza ordinaria, esterno ed estraneo agli schemi concettuali. Dunque, possiamo misurare i processi chimico-fisici che si svolgono nel mondo ricorrendo ai vari ordini di grandezza del tempo: non v’è dubbio però che l’ordine di grandezza appropriato per noi è quello compreso tra i secondi e gli anni, poiché a questo livello si svolgono i processi ambientali che riguardano gli esseri umani e le altre specie viventi.  La realtà può essere analizzata a diversi livelli, adottando la scala di lunghezza appropriata nell’ambito dei diversi ordini di grandezza. Per esempio, lo studio di un pezzo di acciaio dal punto di vista macroscopico può riferirsi alle proprietà chimico-fisiche e meccaniche del materiale, mentre uno studio dal punto di vista microscopico può riferirsi alla struttura interna dell’acciaio, costituito da una lega ferrocarbonio, che presenta zone a diversa concentrazione di carbonio, con parecchi difetti cristallini e impurità. In questo senso un materiale può essere quindi “omogeneo” dal punto di vista macroscopico, ma “disomogeneo” dal punto di vista microscopico2. Il mondo di cui parla Gibson rivela una particolare dimensione ontologica: accanto ai fermioni e ai bosoni esistono anche gli oggetti “mesoscopici” della realtà quotidiana; accanto all’ontologia propria della fisica delle particelle elementari esiste anche una vera e propria ontologia della conoscenza ordinaria, un’ontologia costituita di cose solide o fluide, pesanti e leggere: un mondo di superfici, sassi, barattoli, luoghi e accadimenti.

Qualora volessimo adottare una posizione più prudente e limitarci ad attribuire a tutte queste cose una valenza essenzialmente cognitiva, le entità di cui parliamo riferendoci al mondo della conoscenza ordinaria diventerebbero allora ricostruzioni della mente: non esisterebbe un mondo della conoscenza ordinaria accanto al mondo fisico; esisterebbe tutt’al più un’organizzazione da parte della conoscenza ordinaria dei fenomeni fisici di cui abbiamo quotidianamente esperienza, un’organizzazione ingenua e superficiale ma generalmente efficace, e comunque preliminare, destinata in ultima analisi a lasciare il posto ai modelli delle scienze fisiche. Ricordiamo a tale riguardo l’osservazione provocatoria formulata da Russell: il senso comune, opportunamente sviluppato, ci conduce alla fisica, e questa contraddice in larga misura i paesaggi del senso comune. Se si accetta il livello mesoscopico proposto da Gibson, l’ontologia della conoscenza ordinaria coinvolge molti tipi di entità: dagli oggetti fisici (pietre, tappi, templi) agli eventi (la nascita di Aristotele, la morte di Alessandro Magno, la battaglia di Maratona), dai manufatti alle specie biologiche e ai fenomeni fisici, dalle persone alle sostanze (come acqua, roccia o legno), dai luoghi agli stati mentali, sino a entità ontologicamente “anomale” come i buchi, le ombre, i tramonti. Che cosa sono i saluti, i baci, le carezze? Qual è il loro statuto ontologico e quali relazioni stabiliscono tra di essi? La prospettiva mesoscopica è feconda, ma non è risolutiva nella ricostruzione dell’ontologia della conoscenza ordinaria, che pone precise domande tali forse da non scatenare – come scrisse Heidegger a proposito della domanda circa l’essere – una nuova γιγαντομαχία περì τÖς ο÷σίας, ma che richiedono di essere affrontate come nucleo tematico di effettiva ricerca: domande per rispondere alle quali però non basta rifarsi a Quine sostenendo che esiste tutto ciò di cui parliamo e su cui quantifichiamo, perché esistere significa far parte dell’universo di discorso, del dominio di quantificazione.

Note:

  1. Il termine isomorfismo si utilizza quando due strutture formali possono essere “mappate” una nell’altra, in modo che per ogni parte di una struttura c’è una sola parte corrispondente nell’altra, dove ‘corrispondente’ indica che le due parti svolgono ruoli simili nelle loro rispettive strutture. L’applicazione di tale nozione alle rappresentazioni mentali sta a significare che in esse sono codificate le principali caratteristiche degli oggetti cui si riferiscono, stabilendosi in tal modo una relazione semantica tra l’oggetto fisico e la rappresentazione mentale. Una relazione che rende la rappresentazione mentale una struttura che ‘sta al posto di’ un oggetto fenomenico.
  2. Si parla di scala macroscopica (o punto di vista macroscopico) quando l’indagine del sistema viene svolta da un osservatore (reale o immaginario) collocato rispetto al sistema a una distanza così lontana da riuscire a coglierne le caratteristiche globali; si parla invece di scala microscopica (o punto di vista microscopico) quando l’indagine del sistema viene svolta da un osservatore (reale o immaginario) collocato così vicino al sistema in esame da poter cogliere le caratteristiche delle parti più elementari (per esempio struttura cristallina, molecole o atomi) che costituiscono il sistema; si parla infine di scala mesoscopica (o punto di vista mesoscopico) in tutti i casi intermedi tra macroscopico e microscopico. La scala nanoscopica (o punto di vista nanoscopico) corrisponde inoltre al limite inferiore della scala mesoscopica, vicina alla scala microscopica. Mentre il termine “nanoscopico” si riferisce a una scala di lunghezza intorno al nanometro, non esistono invece limiti ben definiti tra “macroscopico”, “mesoscopico” e “microscopico”; l’utilizzo di tali termini, infatti, dipende dal tipo di indagine che ci si accinge a svolgere e dalla grandezza del sistema in esame.

LEtture:

  1. W. Sellars, Philosophy and the Scientific Image of Man, in Id., Science, Perception, and Reality, Routledge & Kegan Paul, London 1963
  2. H. Putnam, La sfida del realismo, Garzanti, Milano 1991.
  3. E. Agazzi, Il senso comune… .
  4. B. Smith, L’ontologia del senso comune, in E. Agazzi (a cura di).
  5. M.L. Bianca, La mente immaginale. Immaginazione, immagini mentali, pensiero e pragmatica visuali, Franco Angeli, Milano 2009.
  6. Guglielmo di Ockham, Summa totius logicae, ed. J. Biard, T.E.R., Mauvezin 1988.
  7. W.V.O. Quine, Da un punto di vista logico, Cortina, Milano 2004.
  8. H. Putnam, op. cit.
  9. W.V.O. Quine, On What There Is, cit.
  10. U. Eco. Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano 2002.
  11. J.R. Searle, La costruzione della realtà sociale, Einaudi, Torino 2006.
  12. A.Varzi, Ontologia: dove comincia e dove finisce, in «Sistemi intelligenti», 15 (2003).
  13. J.J. Gibson, Un approccio ecologico alla percezione visiva, il Mulino, Bologna 1999.
  14. L. Lombardi Vallauri (a cura di), Logos dell’essere, logos della norma, Editrice Adriatica, Bari 1999.
  15. B. Russell, La conoscenza umana. Le sue possibilità e i suoi limiti, Longanesi, Milano 1955.
  16. R. Casati, A. Varzi, Buchi e altre superficialità, Garzanti, Milano 2002.
  17. M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2011.

Autore

Paolo Piccari

Roma, 1967. È professore associato nell'Università di Siena. Nel 2017 ha conseguito l'abilitazione a professore ordinario. Insegna Filosofia teoretica, Teoria dell’Argomentazione ed Etica e sostenibilità delle organizzazioni. Dirige (con Mariano Bianca) la collana «Oltre/Orizzonti di teoresi filosofica» (Mimesis) e le riviste «Anthropology & Philosophy» e «Arkete». È stato visiting scholar presso la Faculty of Philosophy della University of Oxford. Socio della SIFiT (Società Italiana di Filosofia Teoretica) e responsabile dell’Osservatorio Ethos - Etica pubblica, bioetica e responsabilità sociale, è membro del Presidio della Qualità dell'Università di Siena e del Comitato scientifico dell'Osservatorio Ethos della Luiss Business School. Tra le sue ultime pubblicazioni: Pensiero e realtà. Saggi filosofici (Mimesis 2018); Why Does What Exists Exist? Some Hypotheses on the Ultimate
"Why" Question? (ed. con M. Bianca, Cambridge Scholars 2021).

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Di Paolo Piccari

Biografia

Paolo Piccari

Roma, 1967. È professore associato nell'Università di Siena. Nel 2017 ha conseguito l'abilitazione a professore ordinario. Insegna Filosofia teoretica, Teoria dell’Argomentazione ed Etica e sostenibilità delle organizzazioni. Dirige (con Mariano Bianca) la collana «Oltre/Orizzonti di teoresi filosofica» (Mimesis) e le riviste «Anthropology & Philosophy» e «Arkete». È stato visiting scholar presso la Faculty of Philosophy della University of Oxford. Socio della SIFiT (Società Italiana di Filosofia Teoretica) e responsabile dell’Osservatorio Ethos - Etica pubblica, bioetica e responsabilità sociale, è membro del Presidio della Qualità dell'Università di Siena e del Comitato scientifico dell'Osservatorio Ethos della Luiss Business School. Tra le sue ultime pubblicazioni: Pensiero e realtà. Saggi filosofici (Mimesis 2018); Why Does What Exists Exist? Some Hypotheses on the Ultimate
"Why" Question? (ed. con M. Bianca, Cambridge Scholars 2021).

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